one second
One Second - Courtesy Neon/ Fenix Entertainment

One Second è un film che parla di cinema, ma parla di un cinema che oggi non c’è più e che sembra impossibile riportare indietro. Un cinema così distante dal formato digitale, dall’alta definizione, dal Dolby Surround, e così infinitamente lontano da Netflix, Prime, Sky. One Second parla di cinema come esperienza concreta, fisica oltre che mentale, forse politica e senz’altro sociale, oltre che esclusivamente individuale. E non si limita a parlarne, ma prova ad evocare quell’esperienza e a farcela rivivere, anche se non l’abbiamo mai vissuta prima.

Nella Repubblica Popolare Cinese degli anni ’60, nel bel mezzo della Rivoluzione Culturale, una ragazzina ruba una pellicola cinematografica. La stessa che sta cercando un uomo misterioso, oltrepassando gli immensi deserti tra un distretto e l’altro attraverso i quali la pellicola viaggia per essere proiettata al popolo. Incontrandosi, rincorrendosi e scontrandosi, i due si dimostrano disposti a tutto per ottenere quel rullo, per motivi differenti, eppure, in realtà, profondamente simili.

Il cinema di Zhang Yimou

Fin dal suo esordio nel 1987 con Sorgo Rosso, il regista cinese Zhang Yimou ha iniziato un’inarrestabile scalata verso l’Olimpo del cinema internazionale. L’Orso d’oro ottenuto a Berlino con quest’opera, infatti, è solo il primo riconoscimento di una lunga serie che prosegue nel 1992 con il Leone d’oro a Venezia e la candidatura agli Oscar per Lanterne Rosse. E prosegue con un secondo Leone d’oro, nel 1999, per Non uno di meno e, sempre a Venezia, con il Premio Jaeger-LeCoultre 2018, dedicato, dedicato a cineasti che segnano in modo originale il cinema.

Nel mezzo, tra il 2002 e il 2004, Zhang Yimou riesce ad ottenere anche il riconoscimento del pubblico internazionale, grazie ad uno stravolgimento della sua attività cinematografica e ad uno sponsor di spessore come Quentin Tarantino. Dal genere drammatico col quale ha conquistato la critica, passa all’azione epica di Hero e La foresta dei pugnali volanti, due film che s’incastrano perfettamente, nel panorama cinematografico mondiale, tra i due volumi di Kill Bill.

È in questo modo che il successo internazionale di Zhang corrisponde a quello del cinema cinese. E nel 2008 arriva al suo punto massimo, con l’incarico di dirigere la cerimonia inaugurale dell’Olimpiade di Pechino.

In un momento politicamente così delicato nei rapporti tra la Cina e tutto il mondo occidentale, questa identità tra Zhang e il suo paese ci costringe a pensare che un suo film, ora, può essere qualcosa di più di un’opera cinematografica. Può contenere un messaggio, forse, nemmeno troppo nascosto.

Perché è molto probabile che quello che la maggioranza degli occidentali possono dire di sapere, in qualche modo, riguardo la Cina rimanda proprio alla cinematografia di Zhang. Un regista che, per cultura e personalità, sa perfettamente che mettere in scena un film come One Second significa citare esplicitamente un film come Nuovo Cinema Paradiso, uno dei picchi più alti del cinema occidentale contemporaneo. E, soprattutto, il film più premiato tra quelli che permettono al cinema di parlare di se stesso.

Il rapporto di One Second con il presente

Sembra quindi essere lo stesso Zhang a chiederci di tracciare questo parallelismo, tra la sua Cina della Rivoluzione Culturale degli anni ’60 e l’Italia del secondo dopoguerra, suggerendoci che, in fondo, due mondi così distanti possono trovare un’esperienza comune, l’esperienza cinematografica. Questo non significa affatto accendere su Netflix la propria Smart TV in 4K, seduti da soli sul proprio divano di casa. Significa organizzare una proiezione, trasportare da una città all’altra gli infiniti rulli di pellicola che compongono un film (le mitiche “pizze”) e trattarli con cautela. Significa riunire in un luogo centinaia di persone diversissime tra loro e gettarle di fronte ad un’inconsueta magia per sentirle unite sorprendersi, spaventarsi, eccitarsi, commuoversi, vivere di fronte a quell’illusione di realtà. E significa sentirle sospirare di sollievo nel momento in cui la pellicola, sdrucita da troppe proiezioni, salta un fotogramma a ricordargli per un attimo che sono di fronte a una finzione.

One Second evoca e fa rivivere tutto questo al proprio spettatore, con la forza che possiede il cinema quando parla di se stesso, seguendo la logica della doppia negazione: rappresentando due finzioni, mette in scena una realtà. La realtà di un’esperienza cinematografica che oggi è diventata impossibile.

Ma anche la realtà di qualcosa che si è verificato davvero, un tempo ormai lontano. Un’esperienza possibile, come possibile era pensare in modo differente il concetto di individualità rispetto ad oggi. Perché in quell’esperienza il cinema era capace di dare valore ad ogni storia individuale nel complesso di quella collettiva. Proprio come ci mostra One Second con la sua narrazione, dando un immenso valore umano a due singoli fotogrammi: un secondo, appunto, nel complesso dell’intero film, come due vite, una storia, nel complesso della Storia umana.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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