Onoda - Arthur Harari

In un’edizione stra-ordinaria del Festival di Cannes, Onoda di Arthur Harari riporta il pubblico dentro i confini delle aspettative cinefile tradizionali. Mentre infatti la Selezione Ufficiale osa con Annette o, soprattutto, con Titane (Julia Ducournau), la sezione Un Certain Regard si trattiene, o almeno lo fa con il suo film di apertura.

Questo non significa che sia un film minore o semplice, anzi, esattamente il contrario. Onoda ricerca propriamente la solennità di un cinema da festival, quasi elitario e aristocratico. Costruisce un mondo lontano in cui perdersi e contemplare immagini e suoni.

A favorirlo, in questo senso, sono anche l’ambientazione e la storia che Harari sceglie di raccontare al suo secondo lungometraggio in assoluto. Il regista e attore francese, infatti, si distacca dalla comfort zone dell’esperienza europea per entrare letteralmente nella giungla asiatica.

Un’incredibile storia vera alla ricerca dell’universalità cinematografica

Hiroo Onoda è stato infatti uno degli ultimi soldati fantasma del Giappone nella Guerra del Pacifico (1941-1945), ossia il fronte asiatico della Seconda Guerra mondiale. Fu addestrato realmente come guerrigliero e inviato nell’isola di Lubang (Filippine) con l’unico ordine di resistere a ogni costo e soprattutto di evitare il suicidio, contrariamente a quanto richiesto ai soldati semplici braccati dal nemico. Così Onoda, inizialmente con tre commilitoni, rimase nella giungla di Lubang per circa trent’anni, in attesa di un contrordine, nella ferrea volontà di non venir meno alla sua missione. Solo l’avventata spedizione di un suo appassionato ammiratore, nel 1974, convinse il governo giapponese a intervenire per riportarlo in patria, facendogli deporre le armi.

Sarebbe una storia assurda, se non fosse vera. E soprattutto è una storia che spinge il pubblico a chiedersi quanto e come si è disposti a sopravvivere, o per quale motivazione. Proprio su questa base ricerca forse un appiglio all’universalità. Pur essendo uno splendido film, intriso di poesia visuale, è proprio qui, tuttavia, che inciampa in un piccolo cortocircuito, ingannando il pubblico.

Una scena di Onoda, Arthur Harari

Quale sguardo sulle vicende di Onoda?

Onoda non è infatti un film giapponese su un’esperienza giapponese. È un film francese (in co-produzione persino italiana) che filtra, attraverso lo sguardo europeo, una storia che non appartiene né al regista né direttamente al pubblico di Cannes. È un ologramma perfetto che ammicca al grande cinema nipponico e alle sue atmosfere in modo così convincente da far dimenticare per un attimo l’estraneità di tutti noi alle vicende narrate. Che sia questo il modo in cui, paradossalmente, raggiunge l’universalità che insegue? È difficile dirlo, ma probabilmente sì. Perché al di là della condivisione delle convinzioni del protagonista o dell’empatia nei suoi confronti, Onoda è senza dubbio un’opera che pone domande esistenziali, innanzitutto a chi, seduto comodo in sala, assiste silenziosamente.

Costringe a dare un valore alla vita rispetto al ruolo, all’onore e al dovere nella società, in un conflitto inevitabile tra il singolo e la collettività. Come venga risolto questo conflitto è poi una questione intima del singolo spettatore e della singola spettatrice. Il vero epilogo delle vicende di Onoda, d’altronde, è scritto sui libri di Storia. Più interessante è capire quale miccia si accende, se si accende, in un contesto culturale (quello europeo) che elegge il libero arbitrio sempre sovrano.

In altre parole, Onoda mostra un modello di eroe fuori dal nostro tempo e fuori dal nostro spazio. Un uomo in grado di resistere strenuamente alla morte non per istinto ma per dignità. E benché sia qualcosa di molto difficile da raccontare senza sovrapporvi un (pre)giudizio, Harari riesce nell’intento creando un film epico, nel vero senso del termine.

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