Sharon riesce finalmente ad entrare in quella stanza d’albergo chiusa dall’interno. Va diretta alla grande finestra e spalanca la pesante tenda di velluto, liberando la luce abbagliante di Los Angeles. Senza guardare altro, si volta e raggiunge un grande stereo che amplifica il giradischi e alza il volume al massimo.

Dopo un breve fruscio, parte un riff duro e ossessivo che avanza con una lentezza inesorabile avvolgendo la stanza. È Paranoid.

Sharon sente un grido provenire dal letto, sotto le coperte, proprio mentre nel riff entra il rullante della batteria e la voce inizia a cantare:

Finish with my woman ‘cause she coudn’t help with my mind.

Sharon strappa le coperte dal letto con un gesto secco e scopre un uomo rannicchiato su se stesso, in posizione fetale, con un braccio a coprirsi gli occhi. Urla, protesta, balbetta insulti, ma la voce dallo stereo le sommerge:

People think I’m insane because I am frowning all the time.

Sharon non abbassa il volume, lo guarda a braccia conserte trattenendo la voglia di abbracciarlo. Aspetta che finisca di gridare e tolga le mani dal viso per guardarla in faccia. Ha deciso che questo è l’unico modo per farlo uscire da lì dentro, da quella stanza d’albergo dove si è rinchiuso da quasi un anno, aprendo solo per far entrare cocaina e superalcolici.

Think I’ll lose my mind if I don’t find something to pacify
Can you help me? Occupy my brain

Paranoid continua a travolgere le sue grida che, lentamente si affievoliscono, diventando tutt’uno con quella voce acida e insolente che guida l’inarrestabile cavalcata fuori dalle casse dello stereo.

Sharon ha deciso che questo è l’unico modo per farlo uscire dal quella psicosi maniaco-depressiva nella quale è entrato quando i suoi amici lo hanno tradito, buttandolo fuori dalla band che lui stesso aveva creato.

Sharon non è ancora sua moglie, è solo la giovane figlia del loro manager, ma sente che ha il diritto di salvarlo, in ogni modo. E sa che l’unico modo per farlo è costringerlo a ricordare a se stesso che lui è l’anima di una delle band più influenti della storia, i padri fondatori dell’heavy metal, i Black Sabbath.

È solo il 1979 e Sharon deve costringerlo a ricordarsi che lui è già Ozzy Osbourne.

Black Sabbath in una foto del 1970 (Ozzy è l’ultimo a destra) – credits: web

Le origini

Sono gli anni ’60 e Birmingham è una grigia città industriale inglese. Se sei nato lì, hai tre possibilità; la fabbrica, la prigione o l’esercito.

Ozzy prova le prime due, ma c’è qualcoa che lo salva da entrambe: la musica. In particolare una band che sta spaccando il Regno Unito, creando una frattura insanabile tra due generazioni, padri e figli: i Beatles.

Suo padre lo vorrebbe commerciante, ma la frattura, come detto, è insanabile; nella seconda metà degli anni ’60, Birmingham ha meno di un milione di abitanti e 500 band musicali.

Ozzy fa parte di una di queste quando, a 15 anni lascia la scuola e viene arrestato per il furto di un televisore, colto sul fatto con il pesante apparecchio a bloccargli il gracile corpo scivolato a terra.

Quando esce decide di trasformare la sua debolezza infantile nel suo tratto artistico: come nome d’arte sceglie proprio quello strano soprannome, Ozzy, affibiatogli dai compagni mentre cercava di combattere la balbuzie anche nel pronunciare il proprio cognome (Os-Os-Os-Osbourne). Sceglie la vetrina di un negozio di dischi per appendere l’annuncio attraverso il quale proporsi ad una nuova band.

Ed è proprio uno di quegli ex compagni di scuola a chiamarlo, Tommy Iommi, forse il peggiore con il quale aveva combattuto per difendersi dal bullismo. Ma anche lui, nel frattempo, è cresciuto: ha lavorato in fabbrica per pagarsi il sogno di diventare musicista, ma ha perso le estremità di due dita in un incidente. Ha qualcosa in comune con Ozzy, oltre alla scuola, ed è l’abilità di trarre vantaggio dalle sue debolezze: cambia le corde della propria chitarra, monta quelle più leggere del banjo, e le accorda un semitono sotto, creando un suono più cupo e imperioso, sicuramente unico.

Qualcuno, più tardi, sosterrà che quel suono è lo stesso bandito durante il Medioevo perchè si sosteneva evocasse il demonio. Senza dubbio, è il suono distintivo dei Black Sabbath.

Ozzy nel 1974 – credits
Ozzy in una foto della fine degli anni ’70 – credits: web

Il lato oscuro del rock

Sulla scena mondiale già dominano gruppi come Led Zeppelin o Deep Purple: l’hard rock è già nato e grida nel suo fulgore. Per questo, forse, i critici non si accorgono che qualcosa di simile, ma non identico sta riscuotendo un successo di pubblico clamoroso: nel 1970 Black Sabbath vende un milione di copie. Ai loro occhi, un successo inspiegabile.

Sembrano aver già dimenticato quello che è successo solo un anno prima ad Altamont, in California: i Rolling Stones, per rimediare all’errore di aver rifiutato Woodstock, realizzano un loro festival. L’obiettivo è prolungare quella magica atmosfera di rivoluzione culturale e sociale che il festival del ’69 ha dimostrato realmente possibile. Ma hanno compiuto un imperdonabile errore: hanno scelto di affidare la sicurezza delll’evento ad un gruppo di motociclisti, gli Hell’s Angels.

Quel giorno il movimento di pace e amore che il festival di Altamont intendeva prolungare vede la sua brusca fine con l’omicidio di un diciottenne afroamericano, consumato sotto il palco dagli stessi Hell’s Angels.

Quel giorno il rock ha smesso definitivamente di rappresentare le illusioni di un mondo migliore, coltivate negli anni ’60, e ha rivelato il suo lato oscuro. Con tutto il suo fascino.

Ascesa e declino dei Black Sabbath

Ozzy Osbourne e Tommy Iommi, una voce acuta, acida, e riff semplici, brutali. Eppure, come dice Ozzy stesso, non basta urlare per fare heavy metal, ma serve una sezione ritmica eccezionale. E loro ce l’hanno: il basso di Geezer Butler e la batteria di Bill Ward non si limitano a riempire la linea melodica, ma ne creano una parallela che la raddoppia dando una profondità tridimensionale alla musica che si appesantisce di una cupezza inquietante. I testi di Butler, pregni di occultismo e di riferimenti ai deliri della mente, danno alla musica dei Black Sabbath l’impronta demoniaca che li contraddistingue e che, da loro, contraddistingue l’intero genere metal.

Nel 1970 esce Black Sabbath, il primo album della band. Come anticipo per la registrazione ogni componente riceve 120 dollari. Ozzy ci compra una maglietta nuova e la più grande bottiglia di dopobarba della marca Brut.

Nel 1972 esce Vol.4, il quarto disco della band. Il titolo viene imposto dalla casa discografica che trova quello scelto dai quattro, Snow Blind, un riferimento troppo esplicito alla cocaina. Come anticipo per la registrazione ricevono una valigia piena di dollari che devolveranno totalmente per droghe e alcol.

Nel giro di soli due anni, i Black Sabbath hanno cambiato la musica, gettando le basi per gran parte di quella che verrà attraverso la pubblicazione di quattro pietre miliari. Ne pubblicheranno una quinta, subito dopo, nel 1973, Sabbath Bloody Sabbath, ma da lì in poi la scintilla geniale muore soffocata dagli eccessi.

Rimepiono di cocaina gli amplificatori per trasformare le sessioni in studio in festini, falliscono le performance live, discutono tra loro, e arrivano quasi ad uccidere Ward cospargendogli il corpo di pittura dorata.

Raggiungono il picco del loro declino in un concerto a Nashville, nel Tennessee. Uno stadio di baseball strapieno di persone è in delirio per loro, in fibrillante attesa di vederli suonare. Ma trascorrono le ore e la band non sale sul palco: il pubbico, per quanto osannante, inizia a spazientirsi. Ozzy è scomparso. La sua camera d’albergo è vuota, nei bar e in città nessuno lo ha visto. Tommy e gli altri sono preoccupati, arrivano a chiamare la polizia pensando a un rapimento. Solo alcune ore dopo, quando ormai il concerto è stato annullato, lo ritroveranno addormentato, strafatto, nella camera d’albergo sbagliata.

Ozzy, come gli altri, è ormai schiavo dei propri eccessi. Ma, differentemente rispetto a loro, non sa contenersi. Il disastro di Nashville è solo l’ennesimo pretesto per decidere di allontanarlo dai Black Sabbath e sostituirlo con Ronnie James Dio.

Ozzy in una foto recente – credits: web

Ora bisogna pensare a come farlo scendere da quel letto

Il riff secco ed ossessivo di Paranoid continua, mentre Sharon è ancora in piedi di fronte a quell’uomo che ha deciso sposerà, qualsiasi cosa accada.

I need someone to show me the things in life that I can’t findI can’t see the things that make true happiness, I must be blind

Non grida né si lamenta più Ozzy. Sembra piuttosto che stia ascoltando quelle parole e quella chitarra brutali, in silenzio.

Make a joke and I will sigh and you will laugh and I will cryHappiness I cannot feel and love to me is so unreal

Sharon continua a guardarlo. Ora, lì di fronte a lei, su quel letto sfatto, è poco meno di un uomo, eppure sta già pensando a quello che sarà dopo. Sta pensando alla carriera da solista, alla leggenda che è e al personaggio che ci costruirà attorno con la cura di una manager, facendo di ogni suo gesto, parola o errore qualcosa di mitico,

Forse, sta adirittura pensando a un festival di musica metal che porti il suo nome, Ozzyfest, magari. E, naturalmente, a un suo ritorno trionfale con i Black Sabbath.

And so as you hear these words telling you now of my state
I tell you to enjoy life I wish I could but it’s too late

Più in là, magari. Adesso bisogna pensare a come farlo scendere da quel letto.

Ozzy e su moglie Sharon – credits: web

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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