Pier Paolo Pasolini dietro la macchina da presa. Credits: web.

Quarantacinque anni fa, il corpo di Pier Paolo Pasolini, brutalmente assassinato (certo da più di una persona, checché se ne sia detto) veniva ritrovato all’idroscalo di Ostia. Quarantacinque anni in cui l’opera dello scrittore, poeta, polemista, saggista, regista (e altro ancora) non ha smesso di parlare a una società che è diventata fin troppo rapidamente la nostra. Fra esperimenti, contraddizioni e provocazioni che ne costituiscono la «disperata vitalità», l’eredità pasoliniana non mette né metterà mai tutti d’accordo (per fortuna). Tanto meno in ambito cinematografico, dove continuano a far discutere tanto la visione del mezzo proposta dall’autore quanto gli esiti dei singoli film.

Ma, a proposito di questi ultimi, vorremmo consigliare alcuni titoli, tra i meno noti e ricordati, utili perciò tanto agli estimatori quanto ai detrattori: perché il percorso di Pasolini, comunque lo si veda, è tra i più ricchi e diversificati del nostro cinema (e non solo). E annovera, oltre ai lungometraggi più celebri (come l’esordio Accattone o l’estremo e ancora scioccante Salò), diversi altri lavori (tra cui corti, documentari e progetti incompiuti) non meno interessanti e utili per farsi un’idea del Pasolini filmmaker nelle sue molteplici fasi.

1) Che cosa sono le nuvole? (1968)

Totò e Ninetto Davoli in Che cosa sono le nuvole?. Credits: web.

Definire i corti di Pasolini come una componente “minore” della sua filmografia sarebbe fargli un torto, dei peggiori. Al contrario, nelle misure dei dieci-venti minuti il regista ha saputo condensare i materiali della sua poetica con efficacia persino maggiore che in molti lungometraggi. Bizzarra e malinconica parabola di due marionette, raffiguranti Othello (Ninetto Davoli) e Jago (Totò), Che cosa sono le nuvole? (episodio del film collettivo Capriccio all’italiana) rappresenta l’apice della rilettura compiuta da Pasolini sulle icone (comiche e non solo) della cultura nazional-popolare: nel cast, oltre a Totò, abbiamo infatti Franco e Ciccio, anche loro marionette “viventi”, e Domenico Modugno, che canta la canzone del titolo, scritta dallo stesso Pasolini rimodellando i versi della celebre tragedia shakespeariana.

Il discorso politico (già desolato dietro l’apparente leggerezza comico-favolistica) di Uccellacci e uccellini e quello socio-familiare de La Terra vista dalla Luna si fanno ora aperta interrogazione sull’esistenza, modernissima e universale: in quella «verità» che la marionetta Othello avverte ma non può nominare, c’è la natura inafferrabile e contraddittoria dell’utopia pasoliniana, a cui i tanti linguaggi attraversati dall’autore tendono senza poterla mai davvero definire (tanto meno afferrare). Resta, fuori dal grottesco (meta)teatro della società, l’apertura all’alterità “sacra” della natura, quella «straziante, meravigliosa bellezza» di una vita che non è mai separabile dalla morte.

2) La sequenza del fiore di carta (1969)

Ninetto Davoli ne La sequenza del fiore di carta (1969). Credits: web

Ancora un corto, incastonato tra gli episodi di un film collettivo, ovvero Amore e rabbia (1969): protagonista assoluto (o forse no) Ninetto Davoli, che nel ruolo dell’«innocente» Riccetto, si aggira inconsapevole e allegro per le strade della Roma moderna e caotica, scambiando battute con i passanti e giocando con un gigantesco fiore rosso. Ma si può essere innocenti (ovvero inconsapevoli) di fronte agli orrori della Storia, che emergono tra stacchi e dissolvenze incrociate a turbare la serenità della “sequenza”?

Una meditazione lacerata e lacerante sul mito pasoliniano di una “purezza” umana alternativa al conformismo borghese e alle degenerazioni del razionalismo occidentale. E sull’ormai impossibile (o inaccettabile) tenuta di quel mito, di fronte al divenire storico che perpetua senza apparenti vie d’uscita il binomio vittime-carnefici. Il movimento disperato che porterà dalla Trilogia della vita a Salò è già tutto in questi dieci minuti, tra i più interessanti della filmografia dell’autore anche nella contaminazione tra cinema del reale, soluzioni da avanguardia russa e allegoria biblico-apocalittica. A uso e consumo di chi ritiene Pasolini poco più di uno scrittore “prestato” alla settima arte.

3) Porcile (1969)

Jean-Pierre Léaud in Porcile. Credits: Centro Studi Pasolini Casarsa.

Lungometraggio (dal dramma omonimo) noto ma spesso poco apprezzato del regista, senz’altro tra i più ostici nel contenuto e nella forma. Si alternano infatti, senza nessi diegetici, due scenari parimenti stranianti: le peripezie di un giovane cannibale (Pierre Clémenti) in un Cinquecento metastorico; e la parabola di Julian (l’attore-feticcio di Truffaut Jean-Pierre Léaud), venticinquenne estraneo sia all’autorità paterna (è figlio di un ex nazista, riciclatosi tra la nuova, rapace borghesia post-bellica) che ai fermenti contestativi dei coetanei. Nemmeno con loro, infatti, il ragazzo può condividere la sua indicibile “diversità” sessuale, che lo porta ad accoppiarsi in segreto con i maiali della stalla.

Escluso Salò, è forse il più radicale (ancorché visivamente poco esplicito) tra i film pasoliniani compiuti. Un apologo cupo e sofferto sul rapporto tra padri e figli e sulla tensione distruttiva e (soprattutto) autodistruttiva che accomuna gli emarginati di ogni ordine (anti)sociale. Di Salò si anticipa anche la rappresentazione cupamente grottesca della continuità tra nazifascismo e classe dirigente neocapitalista, avvalendosi qui delle ottime performance di Alberto Lionello e Ugo Tognazzi (ma c’è anche Marco Ferreri in veste di attore). E forse nessun’allegoria del rapporto complesso e fondamentale di Pasolini con la sessualità (almeno al cinema) è mai stata dolorosamente pregnante come quella di Julian.

4) Appunti per un’Orestiade africana (1970)

Pasolini in una scena di Appunti per un’Orestiade africana. Credits: web.

Tra le molte e significative prove del Pasolini documentarista, questa è forse la più densa e fertile di spunti ancora oggi, dove il dibattito sul rapporto tra Europa e culture africane è vivo e urgente come non mai. Il regista, al lavoro sull’ambizioso progetto di una rilettura filmica dell’Orestiade di Eschilo nell’Africa post-coloniale, visita, osserva e interroga quel mondo, auspicando un’utopistica sintesi tra strutture modernamente democratiche e patrimoni culturali locali.

I limiti e le contraddizioni dell’approccio di Pasolini alla complessità del contesto in cui si muove possono ben essere dimostrati, tanto più con la sensibilità di oggi: ma si rivelano un motivo di interesse ancora maggiore del film. Nella tensione sempre sincera e sempre imperfetta del filmmaker a un confronto che forse (come il film progettato) non inizia mai davvero, c’è la scommessa (e lo scacco) dell’intera ricerca pasoliniana: delusa dalla Storia e sabotata dalle proprie stesse opposizioni interne, eppure (anche per questo) coraggiosa e irripetibile. Come questo doc frantumato, contaminato, “sconfitto” e perciò tanto più vitale.

5) Appunti per un film su San Paolo (1968-1974)

L’edizione Garzanti degli
scritti sul San Paolo di Pasolini.

Tra i tanti “film mancati” di Pasolini, quello su San Paolo è particolarmente interessante ed emblematico, e ce ne possiamo accorgere leggendo la sceneggiatura, così ampia e articolata da essere uscita autonomamente in volume per Garzanti. Ed è uno script da leggere e rileggere, perché in quella «struttura che vuol essere altra struttura» (come l’autore definiva le sceneggiature) si esprime (e immagina) già in pieno la potenza visionaria di un film che avrebbe probabilmente portato la rilettura della tradizione cristiana in Pasolini a un grado ulteriore di maturazione.

Rilettura anche stavolta “eretica” (l’evangelista Luca, estensore dei testi fondativi dell’ortodossia cattolica, è un posseduto da Satana) e modernissima: dove la vicenda dell’apostolo (in cui si riflettono contraddizioni e tormenti dell’ultimo Pasolini) viene trasposta nel mondo contemporaneo, dal nazifascismo all’America degli anni Sessanta, con tanto di cecchini “kennedyani” in agguato. Chissà se qualcuno, un giorno, sarà abbastanza folle da tradurre quelle pagine in un film. D’altronde, nel magma sempre in divenire dell’opera pasoliniana, la voce dei progetti incompiuti è spesso quella che arriva più lontano.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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