È da qualche giorno in libreria, Per farla finita con se stessi, un Antimanuale di crescita personale scritto dal filosofo belga, professore di Teoria del diritto presso la Vrije Universiteit di Bruxelles, Laurent de Sutter (traduzione di Marco Carassai), edito da Tlon.
Il libro racconta la storia e la percezione dell’io nei vari secoli e fa emergere una problematica che ci riguarda tutti, quella della difficoltà di essere se stessi. Nelle ultime pagine di questo testo, de Sutter scrive: “Preferiamo essere chiunque, in modo interscambiabile e indifferente, per poterci fondere nella massa brulicante delle città senza mai distinguerci se non nel modo che scegliamo, grazie agli incontri che facciamo”.
Per noi un’apparente condanna, quella di fondersi nella massa diviene in questa riflessione una benedizione, un invito a uscire dagli schemi sociali che ci rendono sudditi inconsapevoli. Sin dall’infanzia siamo abituati a rincorrere chimere, stili di vita perfetti e modelli stereotipati per la smania di essere qualcuno. De Sutter ci ricorda che, nel pantano dei vorrei, non è semplice comprendere se i nostri desiderata siano davvero nostri o quelli di qualcun altro e riflette su come ceti sociali, generi, nazionalità siano in realtà delle gabbie che ci classificano e limitano la nostra libertà. Allora, tanto vale aspirare a essere chiunque, a perdersi nella folla per imparare a non essere quello che ci hanno fatto credere di essere ma che in realtà non siamo.
L’io è uno, nessuno e centomila
Facciamo un passo indietro e ritorniamo alle prime pagine di Per farla finita con se stessi laddove la riflessione dell’autore prende avvio da La padronanza di sé attraverso l’autosuggestione cosciente, un testo di Émile Coué (1922). Il pensiero di quest’ultimo riconosce, come la psicanalisi, la scissione del soggetto e di conseguenza la perdita della padronanza che dalla sua divisione ne deriva. Partendo da questo presupposto, Freud tentò di esplorare questa perdita, al contrario Coué s’illuse di recuperarla “imparando a padroneggiare ciò che padroneggia la padronanza del soggetto, ovvero l’immaginazione”. Da qui, la necessità di rieducare quest’ultima, a discapito della volontà, attraverso il suo “metodo”.
Al di là delle diverse scuole di pensiero, un dato è certo, in ognuno di noi convivono diversi io e a dircelo è stata anche la letteratura, basti ricordare Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, Il visconte dimezzato di Italo Calvino, Lizzie di Shirley Jackson e Il lupo della steppa di Hermann Hesse che confesso di aver ripreso tra le mani dopo aver concluso la lettura di Per farla finita con se stessi.
Gli uomini hanno un bisogno innato e impellente di immaginare il proprio io come unità. […] In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità. Che ciascuno tenda a prendere questo caos per un’unità e parli del suo io come fosse un fenomeno semplice, ben fissato e delimitato: questa illusione ovvia per ogni uomo (anche per il più elevato) sembra una necessità, un’esigenza di vita come respirare e mangiare.
Hermann Hesse, Il lupo della steppa, Mondadori, Milano 2021, p.XVI
Crescita personale o manipolazione?
Laurent de Sutter ci fa viaggiare nella storia. Ci conduce nell’antica Grecia, dove non era concepito un sé al di fuori del luogo che si era ricevuto dall’esterno, e nell’antica Roma, dove l’io corrispondeva al soggetto giuridico, per ripiombare nella contemporaneità della crescita personale forzata. La storia del “metodo Coué” si rivela essere, secondo de Sutter, “un arrendersi incondizionato all’esterno che determina la logica dei luoghi che definiscono il sé in questione”, soprattutto quando l’obiettivo di questa pratica della cura del sé è la “padronanza”. Alcuni discepoli di Coué utilizzarono i suoi insegnamenti come strumenti di igiene sociale e politica che, durante la Seconda guerra mondiale, indussero i rappresentanti principali del Coueismo a divenire collaborazionisti. Successivamente, a partire dagli anni ’80, le spinte patriottiche lasciarono il campo a quelle capitalistiche che ancora oggi riconoscono come una potente risorsa le teorie dello sviluppo personale originate dal pensiero di Coué.
“L’essere è essere registrati”
Nella storia della modernità occidentale diverse istituzioni hanno via via definito il soggetto: nome, firma e documento di identità rappresentano solo alcuni esempi. Per de Sutter, dunque, “Esistere consiste soprattutto nell’esistere per le autorità che hanno il potere di riconoscere se un individuo è qualcuno o nessuno – o meglio: se un individuo è effettivamente la persona stessa, la persona che dice di essere, ma di cui non si può dire che lo sia veramente”. La nostra identità è una “performance amministrativa” e risponde ai bisogni di uno stato di polizia che ha l’obiettivo di “far confessare” ai soggetti le proprie generalità, anche contro la loro volontà. Il sé si riduce a un insieme di dati e risponde all’obbligo di un esercizio di disciplina.
“Essere è divenire”
“Per accedere alla conoscenza del mondo, quindi, bisogna diventare questa conoscenza; è necessario abbandonare il sé che sbarra la strada e raggiungere una forma assoluta di apprensione del legame sostanziale tra ciò che si è e ciò che è il mondo”. Questo legame, ci racconta de Sutter, è ciò che il vedantismo e il buddhismo chiamano âtman. Forse Harry Haller, protagonista de Il lupo della steppa, lo aveva capito che si può “vivere intensamente soltanto a scapito dell’io”, e, durante un ballo in maschera, misterioso rito di passaggio, aveva appreso “il segreto dell’immersione della persona nella folla, dell’unione mistica nella gioia”. Occorrerebbe, dunque, riprendendo le parole di de Sutter “poterci fondere nella massa brulicante delle città” ma senza avere paura del diverso descritto magistralmente da Edgar Allan Poe ne L’uomo della folla.
I meccanismi sociali e burocratici di cui siamo parte integrante e la call to action a migliorare se stessi costruiscono un’idea di identità a senso unico, un mondo popolato da cloni. “Essere è divenire”, ci ricorda questo Antimanuale di crescita personale, poiché qualsiasi linea di demarcazione è nemica dell’essere se stessi.
“Non si è uomini, né donne, né trans, né bianchi, né neri, né gialli, né vecchi, né giovani, né belli, né ricchi, né famosi, né sconosciuti, né buoni, né cattivi. […] In senso stretto non si è niente – se non le potenze che le circostanze ci lasciano liberi di attivare per accompagnarle o trattenerle, per immergersi in esse o per resistervi, per affondarvi come in un grande flusso indifferente o per cercare di condurle come se il mondo fosse da fare”, scrive de Sutter.
E adesso come rispondereste alla domanda: Dobbiamo necessariamente essere qualcuno?
Ringraziamo Edizioni Tlon, qui il link per saperne di più.
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