Alla 68° edizione del Festival del cinema di Venezia, nel 2011, viene presentato il film Pivano blues – Sulla strada di Nanda, un documentario su una delle più complesse figure della cultura italiana.

E forse, proprio per questo, non è un caso che, a pochi minuti dall’inizio della proiezione, dopo la regista e i produttori del film, compaia in sala Piero Pelù.

Immediatamente si intuiscono reazioni strozzate del pubblico di ovazione e stupore. Non solo perché si tratta di una pesenza non annunciata. 

Tra gioielli e diamanti preziosi, sfavillanti abiti da sera ed elegantissimi smoking, infatti, Pelù attraversa il sontuoso red carpet con i suoi strettissimi pantaloni in pelle e un gilet dello stesso materiale a rivelare il petto nudo e villoso sul quale ciondolano un paio di collane. Sorride mentre entra in sala, lasciando che le luci dei fari facciano brillare i suoi grandi orecchini e tratteggino i baffi e il pizzetto, dandogli un aspetto mefistofelico.

Piero Pelù – Credits: web

Gli inizi sulle rive dell’Arno

Quando intorno al 1825 Alessandro Manzoni aveva ormai pronto il suo capolavoro, I promessi sposi, prese una decisione drastica: riscriverlo modificandolo linguisticamente.

A giustificazione di questa scelta, scrisse una frase divenuta celebre quanto il romanzo: “sciacquare i panni in Arno“. Il suo obiettivo era adattare il testo alla lingua fiorentina, considerata come la lingua italiana per antonomasia, tracciata da Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. 

Poco meno di due secoli dopo, intorno al 1980, anche la musica italiana sciacqua i propri panni in quello stesso fiume toscano.

Dopo il fulgore nascosto del rock progressive anni ’70, infatti, il panorama musicale italiano è drasticamente scisso tra il mainstream della canzone popolare e l’alternativa del cantautorato. Senza nessuna via di mezzo.

Ma fuori da quei confini chiusi c’è un universo musicale globale in pieno fermento che è impossibile non percepire. Anche se si vive reclusi in una cultura nella quale il mercato è inscindibile dal conservatorismo, e tutto ciò che non è conforme viene rifiutato.

È impossibile non percepire il calore di quegli incendi che stanno divampando fuori dall’Italia, dove i generi nascono e si moltiplicano, esplodono, si distruggono e si ricreano, in un flusso continuo e multiforme. Nessun genere è più al sicuro nella propria staticità.

Nemmeno il rock, minacciato dal punk, il cui incendio divampa lanciando scintille capaci di generare nuove fiamme, come quella della new wave.

È proprio questa la fiamma che un gruppo di ragazzi fiorentini raccoglie e immerge nel fiume davanti a sé. E quando la fa riemergere è tutt’altro che spenta: arde di un fulgore nuovo, unico, mai ascoltato prima. Non soltanto in Italia.

I primi Litfiba – Credits: web

Litfiba

Un basso sostenuto e incessante detta ritmi dark sui quali le tastiere elettroniche disegnano atmosfere sognanti, e una chitarra elettrica offre loro un’anima. Il tutto, mentre una voce possente canta come nessuno ha mai canantato prima.

Sono i Litfiba. È il basso di Gianni Maroccolo, le tastiere di Antonio Aiazzi, la chitarra di Ghigo Renzulli e la voce di Piero Pelù.

Fin dall’inizio, il loro obiettivo dichiarato è rompere quella cultura musicale fondata sull’educazione benpensante borghese. A Firenze non sono i soli a cercare di farlo: Litfiba, Diaframma, Gaznevada creano musica, mentre riviste come “Il mucchio selvaggio”” e “Rockerilla” lanciano le loro creazioni a un pubblico sempre più ampio. E così questa fiamma che divampa inarrestabile anche oltre l’Arno, in tutta Italia.

Non combattono il rock, come fa il punk, ma qualcosa di molto più forte, perché radicato da decenni nel profondo del gusto musicale italiano. È la musica leggera, quella che oggi chiamiamo pop, e da sempre livella la creatività artistica assoggettandola alle leggi di mercato.

È quella stessa musica leggera con la quale, poco più di un decennio prima, Luigi Tenco aveva deciso di chiudere. Se non fosse stato tragicamente annichilito proprio dal suo sistema.

Quando inizia la sua esperienza coi Litfiba, forse Pelù sta proprio pensando a cosa sarebbe diventato Tenco se fosse rimasto vivo. Proprio come sta sicuramente pensando a cosa sarebbero Iggy Pop e Ozzy Osbourne se fossero nati nel suo stesso paese.

Ed è forse seguendo questi pensieri che crea la sua immagine. Una nuova e inedita figura del cantante italiano.

Piero Pelù – Credits: web

Un’immagine irripetibile

Perché Piero Pelù usa la voce e il corpo.

Ha studiato le tecniche vocali del più grande di tutti, Demetrio Stratos, e per questo non può aver alcuna paura di cantare in italiano. Ci vuole coraggio a farlo. Soprattutto come lo fa lui: storpia le parole dandogli un’espressività, le musicalizza giocando con la pronuncia delle sillabe per assecondarle al ritmo della new wave.

Come fa da sempre la musica anglosassone con l’inglese, senza drammi: come nessuno ha mai fatto prima con l’italiano, senza vergogna.

E la sua voce viene sostenuta dal corpo, da quei gesti eclatanti che sono il frutto di studi teatrali e della sana follia che accompagna un artista. 
Il suo lanciarsi dal palco sul pubblico e il suo modo di vestire, in fondo, sono soltanto la manifestazione più evidente del suo essere un animale da palcoscenico. 

Voce e corpo, d’altronde, seguono in lui un impegno sociale costante a favore dei diritti civili e del pacifismo. Lo esprime da sempre attraverso i suoi testi, forti, incapaci di scendere a compromessi con quel conformismo che combatte ininterrottamente, da solo e con i Litfiba. E che non si ferma all’ambito musicale.

A volte, infatti, i suoi messaggi sono espliciti e provocatori, come il personaggio che li lancia. Sono tante le querele e le polemiche nelle quali Pelù si è trovato, non da coinvolto, ma da consapevole protagonista. Dalle critiche rivolte a papa Wojtyla riguardo l’educazione sessuale, alle accuse a Berlusconi e a Renzi (al quale ha dovuto pagare un indennizzo di 20.000 euro), passando per quel preservativo infilato sul microfono del giornalista Mollica che lo intervistava durante un evento di sensibilizzazione all’AIDS.   

Con i suoi Litfiba, tra gli anni ’80 e ’90, ha immerso quella fiamma new wave nell’Arno per cambiare la musica italiana. E questo gioco gli dev’essere piaciuto. Perché ancora oggi continua a raccogliere i panni immersi nell’Arno. Per farli a brandelli e poi indossarli.

Prima di lui, non c’era niente di simile in Italia. E continua a non esserci tutt’oggi. 
Anche i trapper coi tatuaggi in faccia o le maschere di Achille Lauro sembrano aver imparato tanto da lui. Così tanto da apparire, per certi versi, sue copie. Almeno nel modo di costruire un personaggio provocatorio.

Ma dietro Piero Pelù c’è molto, tanto di più rispetto al suo look, ai suoi gesti e al suo modo di cantare. Ci sono, per farla semplice, quarant’anni di carriera. Tutti vissuti senza vergogna, sempre fedele a se stesso, ignorando con quel suo sorriso chiunque lo creda un pazzo o lo declassi a personaggio ridicolo.

E quel giorno al Festival di Venezia non gli importava assolutamente nulla di capire se quelle reazioni strozzate fossero di scherno o di adulazione. Perché, in fondo, lo sa che Ozzy e Iggy sono stati i primi, ma lui è l’unico. Almeno in Italia. 

Piero Pelù – Credits: web

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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