Pietà (2012), Kim Ki-duk

Riguardare Pietà, Leone d’oro alla 69ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia

Kim Ki-duk scompare a soli 59 anni l’11 dicembre 2020. Per omaggiare la sua memoria abbiamo scelto di riguardare il suo Pietà (2012). Leone d’oro alla 69ª Mostra del cinema di Venezia e anche unico film del regista attualmente disponibile su piattaforme streaming. Un film non facile, che già alla prima visone scuoteva implacabilmente.

Repulsione e attrazione, la trappola di Pietà

Pietà è un’opera brutale, a partire dalla messa in scena. Una periferia diroccata di Seoul, morente come le sue officine che devono far spazio ai grattacieli. In questo clima di morte si aggira l’avvoltoio più pericoloso di tutti, un guscio senza anima, moralmente rivoltante e spaventoso: Gang-do.

Pietà è un’opera brutale, anche se non mostra quasi mai la violenza che evoca. Respinge continuamente lo spettatore. Prova subito a disgustarlo, volontariamente, facendo leva sul grande tabù edipico e sull’immane abuso riversato sui personaggi femminili, e di conseguenza sul pubblico femminile.

Infine Pietà è un’opera brutale perché, pur allontanandoci, ci costringe a guardare tutto da vicino. Ci costringe alla lotta tra il rifiuto e l’empatia, creando compassione per un carnefice all’improvviso vittima delle sue vittime. Un esercizio non facile, né da creare né da guardare, ma per questo incommensurabile.

Valeria Verbaro

Alberi dall’abisso

Pietà per quell’essere meschino che è l’uomo. Vittima e carnefice di se stesso, dei suoi desideri (auto)distruttivi, delle conseguenze incontrollabili di ciò che fa. Pietà per Kim Ki-duk, il compianto outsider del cinema sudcoreano, tragico come tanti suoi personaggi- e diventato personaggio, in Arirang. Arriva dopo questa cesura, non a caso, il film Leone d’oro. E raramente come in Pietà la poetica del regista è stata più trasparente. Se è lecito accostarlo a un autore di quella cultura europea che amava (e forse lo amava più della terra d’origine), ci viene in mente Dostoevskij. Per la capacità di rappresentare il baratro oscuro dell’animo umano e della società che ha costruito a sua (avida, brutale) immagine. Ma anche per l’altrettanto destabilizzante ostinazione ad insinuarvi spazi e percorsi di (dolorosa) espiazione, rinascita. Di amore, persino. È un film e un cinema di alberi che nascono, quello di Kim. Dal marciume, dalla violenza, dalla solitudine. Dalla morte.

Emanuele Bucci

Il colore del perdono

In una fossa l’abbraccio, due uomini e una donna, due figli e una madre. La pelle è spenta, dei due cadaveri accanto all’unico vivo che stringe il corpo di lei, che ha provato compassione per chi è nient’altro che un mostro mutilatore al servizio di un mostro peggiore.

E quel maglione bianco e rosso, che non si cancella dalla memoria, indossato per la propria morte: per farsi giustiziare silenziosamente nella nebbia della mattina, tingendo la strada, segnando la percezione di sangue. La pietà scompare nei sobborghi di Seoul, dove contano la sopravvivenza e il denaro, carburante per ingranaggi che risiedono molto più in alto nella scala sociale. La pietà esiste, nei confronti di colui che vive nella ripetitività del macellare, senza rimorso, ogni sentimento. Come la prima volta, fa male, disarma, per poi lasciare, attaccabili e nudi, con ineluttabile rassegnazione.

Silvia Pezzopane

Il film è disponibile su RaiPlay. Continua a seguire FRAMED anche su Facebook e Instagram.

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