Poker Face

Presentato in anteprima mondiale alla 20° edizione di Alice nella città, rassegna parallela alla Festa del Cinema di Roma, Poker Face, il secondo lungometraggio da regista di – e con – Russell Crowe, distribuito in Italia da Vertice 360 a partire da giovedì 24 novembre 2022, non solo non attrae, ma allontana lo spettatore, volendo essere a ogni costo un’opera ibrida capace di muoversi contemporaneamente dalle parti dello spot pubblicitario (almeno in apparenza) e quelle del cinema di serie A, più spiccatamente autoriale e dalle forti intenzioni narrative e perché no anche spirituali, pur non riuscendo in nessuna delle due direzioni. 

Se nell’ormai lontano 2014 Crowe sembrava avercela messa tutta con The Water Diviner, una storia di padri e figli separati tra loro dalle conseguenze inaspettate, tragiche e improvvise di una guerra totale come fu il primo conflitto mondiale, otto anni più tardi con Poker Face, prodotto di innegabile pigrizia e bizzarria, Crowe sembra voler convincere dell’esatto contrario, ossia che impegno e passione cinematografica siano cessati al termine del suo primo film da regista e che oggi sia più forte che mai la volontà di sperimentare, senza tuttavia curarsi del risultato. 

Poker Face infatti, nella sua narrazione multiforme e curiosamente ibrida, si muove in modo estremamente rapido tra registri tematici e stilistici distinti ed estranei tra loro, destabilizzando lo spettatore che se in un primo momento si ritrova dinanzi a un cinema drammatico di intensità emotiva e ricerca spirituale portata avanti da Crowe attraverso ripetuti primi piani in slow motion, momenti onirici alla Terrence Malick e voice over capaci di riflettere sul senso della vita e l’elaborazione della perdita, appena pochi attimi più tardi segue invece un perfetto esempio di scarso cinema thriller dall’impianto televisivo che, tra montaggio discontinuo e scelte registiche e stilistiche dalla dubbia funzionalità, sembra porre tutto il suo impegno pur di commercializzare automobili e ville di lusso. Una vendita costante, o così pare.

Registri ibridi che si scontrano

Ecco dunque che allo scontrarsi di registri così differenti tra loro, anche un film come Poker Face riesce nell’impresa certamente ardua di generare interesse, non tanto per l’evolversi della trama, e perché no degli inaspettati ma possibili plot twist (o “colpi di scena”), quanto piuttosto per l’osservazione del pubblico nella sua espressività. 

Uno sguardo necessariamente attonito ma anche divertito e soprattutto indeciso se seguire il film in quanto opera cinematografica oppure come asta, in attesa costante di alzarsi e gridare un’offerta – sperando che sia e che resti la più alta – per l’acquisto di questa o quella Rolls Royce, piuttosto che la villa postmoderna o l’attico in appartamento da quindici o più piani. 

Nonostante il film sembri ora autodistruttivo e totalmente non riuscito, Russell Crowe – che il cinema lo conosce quando e come vuole (notissimo il suo parere fortemente e inutilmente critico sulla sceneggiatura de Il Gladiatore in fase di riprese, sbeffeggiato anni più tardi da critici, registi, interpreti e non solo) – riempie Poker Face di momenti potenzialmente interessanti. 

Una trama originale ma mal gestita

Non a caso la trama del film risulta perfino capace di apparire originale, raccontando di un multimiliardario, Jake Foley (Russell Crowe) che pur di ottenere massima sincerità dai suoi più grandi amici, organizza insieme a quello che considera fra tutti un vero fratello, Andrew Johnson (RZA), una sadica e bizzarra serata di gioco a Poker Texas Hold’em che tra dosi di veleno non letali e scomode verità a lungo celate, rischia di divenire un vero e proprio gioco al massacro, o altrimenti, una triste, cinica e decisiva resa dei conti tra individui che si sono certamente amati e rispettati nel passato e che rischiano nel presente di farsi a pezzi tra loro, quantomeno nell’animo. 

Il tutto è condito da una inaspettata intrusione armata e perciò violenta che veicola il film dalle parti dell’home invasion più classico, riletto anch’esso dalla bizzarra e timida – o intimidita – lente registica di Russell Crowe, così come dalla scrittura altalenante, destabilizzante e perciò incomprensibile di Stephen M. Coates che non solo rifugge il genere di riferimento che è proprio dell’home invasion dagli albori del cinema, ossia l’horror, o quantomeno il thriller di tensione, ma impacchetta la narrazione all’interno di un sistema infantile e inspiegabile che non vuol definire il film in alcun modo, privandolo perciò degli elementi necessari tanto di trama, quanto di tono, consegnandolo infine alla sospensione o al movimento incessante tra generi, registri e urgenze autoriali mai chiaramente motivate. Tra tutte resta però chiarissima quella della vendita. 

In conclusione, Poker Face risulta essere un’asta di lusso, nonché spot pubblicitario potenzialmente accattivante che perde tuttavia ciascun elemento d’interesse non appena Crowe tra movimenti di macchina dalla dubbia funzionalità narrativa e scelta di registri tematici inevitabilmente destabilizzanti, esplicita la propria pigrizia autoriale nonché completa, o pressoché tale, distanza rispetto al prodotto finito. Un peccato, ma nemmeno troppo. 

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