“In ottemperanza al provvedimento emesso dal Tribunale di Taranto e in attesa dell’udienza fissata per il 5 novembre, Groenlandia e Disney informano che la serie precedentemente nota come Avetrana – Qui non è Hollywood avrà ora un nuovo titolo: Qui non è Hollywood. Qui non è Hollywood è in arrivo dal 30 ottobre in Italia su Disney+”.
Con questa nota stampa arriva la conferma del cambio di data di lancio e, soprattutto, del cambio del titolo della serie diretta da Pippo Mezzapesa sul delitto di Sarah Scazzi.
Sulla sospensione della serie, che parla più di noi spettatori che della serie in sé, avevamo scritto qui. Ma adesso che si potrà vedere, com’è alla fine Qui non è Hollywood?
Quattro episodi, quattro punti di vista
Una delle caratteristiche delle indagini sul delitto della quindicenne Sarah Scazzi è sempre stata la confusione di versioni incoerenti fra loro. L’intuizione della scrittura, dunque, è quella di concedere un’ora a ciascuno dei protagonisti di questa – tristemente tragica – storia provando a restituire la parola prima di tutto alla grande assente, Sarah Scazzi stessa.
Quindici anni, nel pieno dell’adolescenza, la Sarah Scazzi intepretata da Federica Pala vive un’estate diversa, in cui cui non è più una bambina né ancora una donna. Uscire con Sabrina (Giulia Perulli), la cugina più grande, per lei acquista nuovo significato, quasi di autoaffermazione. Inoltre scopre che le fa piacere accorgersi di qualche sguardo e qualche attenzione in più, specialmente se da parte di Ivano (Giancarlo Commare). Per chi conosce l’epilogo, perciò, la tragedia è già nel primo episodio, nel contrasto fra la gioia che Sarah prova nel rifugiarsi a casa degli zii, con la cugina preferita, e il crescente risentimento di Sabrina nei suoi confronti.
Nell’ordine, dunque i quattro episodi raccontano Sarah, Sabrina, Michele e Cosima, ognuno con un ruolo preciso. A partire dal libro Sarah. La ragazza di Avetrana (di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni) immaginano però un’introspezione inedita, soprattutto per Michele Misseri (Paola De Vita) e Cosima Serrano (straordinaria davvero, Vanessa Scalera). La serie diventa così una discesa nelle profondità delle personaggi e delle persone coinvolte, restituendo a ciascuna almeno un briciolo di umanità che, invece, la costante presenza dei media, dei giornalisti e della tv di fronte alla “villetta degli orrori” aveva loro tolto.
Qui non è Hollywood: contro la spettacolarizzazione
Lo scopo principale della miniserie, già nel titolo, è la critica a un sistema mediatico che ha trasformato una morte tragica in ossessione collettiva. Lo si vede, chiaramente, nella primissima sequenza in cui orde di curiosi, veri turisti dell’orrore, arrivano ad Avetrana per scoprire i luoghi del delitto, come se il dolore di una famiglia, di un’intera comunità, passasse sempre in secondo piano rispetto alla notizia del giorno.
Qui non è Hollywood si scaglia dunque contro la spettacolarizzazione del delitto e dei suoi sviluppi, tuttavia per spiegarne la fascinazione sceglie – o forse ha bisogno – di forzare la mano sugli aspetti che hanno reso questa storia parte della memoria collettiva.
Rappresenta un Sud grottesco, stereotipato già nella fotografia, troppo gialla anche per la canicola pugliese di agosto, al contrario della fotografia fredda e quasi horror dei momenti più visionari e tragici, i migliori. Un Sud che parla quasi solo dialetto e balla la pizzica in piazza per i giornalisti, d’altro canto però perfettamente ricostruito nell’estetica della provincia del 2010, dai costumi ai capelli e al trucco e agli oggetti di scena. Sì, forse l’ambiente di provincia ha avuto un ruolo tutto suo in questa vicenda, tanto da diventare il quinto protagonista della serie, tuttavia ci sono momenti in cui oltrepassa un certo limite di credibilità, cadendo nel cliché, che è forse l’unico difetto della serie.
In breve
Qui non è Hollywood assume il difficilissimo compito di raccontare una storia che non è ancora svanita dalla memoria collettiva, provando a farlo in modo cinematografico, diverso da tutto ciò che la televisione e i media hanno raccontato quattordici anni fa. Ciò che il pubblico ricorda si interseca necessariamente con ciò che la serie di Pippo Mezzapaesa decide di mostrare.
E con ciò che decide di immaginare. Il risultato è un prodotto true crime che, per la sua buona fattura, all’estero potrebbe competere con i vari Monster di Ryan Murphy, ma che forse in Italia si scontra con la resistenza di un pubblico che sente questa storia ancora troppo vicina, nonostante l’impegno a raccontarla in modo diverso, e più umano, pur rispettandone gli esiti giudiziari.