Copertina Run

Ho sempre legato l’arrivo dell’estate all’ondata di film thriller e horror che invadono le sale. E quest’anno avevo ancora più voglia di buttarmi a capofitto in inseguimenti, serial killer e mostri sotto il letto – finalmente – sul grande schermo. Run, di Aneesh Changanty, prometteva una buona ora e mezza di suspense con un tocco di drama senza nemmeno troppe pretese. Le premesse erano, a maggior ragione, allettanti dato il precedente successo del regista, Searching. Un più che discreto thriller con il guizzo spesso seducente ed efficace della regia articolata attraverso schermate di computer e della ripresa attraverso device elettronici, la cui imprecisione, instabilità e limitatezza va solitamente a sposarsi con vigore alla suspense che si vuole creare.

Run risulta privo di qualsiasi fremito registico interessante, il che sarebbe stato un problema quantomeno secondario qualora il soggetto e la sceneggiatura fossero stati accattivanti e originali. Purtroppo non è questo il caso.

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Kiera Allen e Sarah Paulson in Run – Credits Lionsgate

L’amore di una madre

Diane Sherman (Sarah Paulson) è una madre. La sua vita precedente – che noi non conosciamo – si è quasi totalmente annullata con la nascita della figlia Chloe (Kiera Allen). È una professoressa, ma fa solo qualche supplenza ogni tanto, perché è dell’istruzione della figlia, che si deve occupare. Chloe infatti non va a scuola. Aritmia, eritema, asma, diabete, paralisi: dopo un breve prologo e la comparsa del titolo del film, dei cartelli a comparsa si premurano di elencarci tutto ciò di cui la diciassettenne soffre. Fin da subito capiamo che è una giovane ragazza indipendente, nonostante i limiti a cui la sua condizione in carrozzina la costringe, insieme all’eccessiva sollecitudine della madre e il suo essere confinata in casa. Aspetta impaziente la lettera di accettazione per l’università, barcamenandosi tra lezioni e incombenze quotidiane.

Già dopo i primi dieci minuti si capisce che c’è qualcosa che non va con l’apparentemente dolce e amorevole madre Diane. Delle nuove medicine, intestate alla madre e dalla funzione poco chiara, che Chloe si ritrova nel computo di pillole quotidiano insospettiscono la ragazza. Da quel momento ha inizio una frenetica indagine che porta Chloe a interrogarsi sempre più su chi sia la donna con cui ha vissuto diciassette anni. E a mettere in questione ciò che una figlia mai dovrebbe trovarsi a dover mettere in questione su un genitore: mi ama veramente?

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Sarah Paulson e Kiera Allen in Run – Credits Lionsgate

Tutto già visto

Si comprende immediatamente che la natura dell’agire della madre non è il colpo di scena verso il quale il film punta. Viene messo subito in chiaro, e si hanno pochi dubbi – e speranze – che un ribaltamento narrativo smentisca ciò che lo spettatore ha probabilmente capito già dal trailer o dalla locandina. Ma ciò che io mi aspettavo era comunque un colpo di scena, una svolta, che desse a questa storia dignità di essere raccontata, e che andasse oltre l’idea di base. Perché purtroppo l’idea di base non è più interessante. Almeno altri due prodotti audiovisivi (Sharp Objects e The Act) avevano messo al loro centro la medesima tematica che, certo, lì aveva una connotazione medica, e forse il colpo di scena è proprio che in Run non sia di natura patologica ma utilitaria.

Ma non è sufficiente ad agganciare l’attenzione e il coinvolgimento dello spettatore che, banalità dopo banalità, anticipa le mosse successive del film come un bravo allievo. E non ci sarebbe nemmeno niente di male, spesso horror e thriller funzionano proprio perché seguono una serie di tropi che l’appassionato conosce a menadito. Ma se oltre a quello non c’è nulla, né un’idea registica forte e chiara, né una sceneggiatura coinvolgente, il film per me ha fallito.

Si aspetta un vero sovvertimento narrativo prima con impazienza e poi con sempre meno fiducia. E quando arriva, purtroppo, ce lo si era già immaginato perché, in fin dei conti, era l’unica rivelazione che potesse “sconvolgere” adeguatamente le fila drammaturgiche della narrazione. Il sussulto “cattivo”, che ti fa fare un sadico sorrisetto storto, quello che io aspettavo e desideravo incontrare nel corpo centrale del film come twist principale, lo si incontra negli ultimi secondi. Inutile dire che non basta a risollevare le sorti di un film veramente troppo scontato e già visto, in cui si segue per inerzia e con poca convinzione quello che si sta guardando.

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Kiera Allen in Run – Credits Lionsgate

Il cast

Sarah Paulson fa Sarah Paulson e, nonostante la bravura attoriale, a me ha personalmente stancato incontrarla sempre negli stessi ruoli.

La vera sorpresa è Kiera Allen, che regge il film quasi totalmente sulle sue spalle, e che per tutta la sua durata offre una performance tanto emotiva quanto fisica che non lascia indifferenti. La giovane attrice è realmente con disabilità, ed è giusto e necessario sottolinearlo in questa epoca in cui si cerca di smuovere sempre più i canoni della rappresentazione, riconoscendone il valore di visibilità sociale. Certo, per chi ha visto il film questa conquista regala un risvolto ironico di cui non dirò altro per non rovinare l’unica – per quanto prevedibile – sorpresa narrativa.

Nell’attesa che la calda estate ci possa sorprendere con film di genere più incisivi, questo è un filmetto senza infamia e senza lode, che consiglierei per passare un’ora e mezza di sana spensieratezza thriller. Vederlo al cinema non aggiunge molto all’esperienza, ma andare al cinema in questo momento storico è sempre e comunque cosa buona e giusta.

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