Non tenere conto dei Måneskin nel discorso musicale è un errore. Come tutti i grandi fenomeni pop che alzano le gonne, fanno schizzare gli ormoni e inseguire i cantanti sotto casa, non considerarlo significherebbe perdere una buona occasione per capire qualcosa di più su di noi. E tra buffi e incomprensibili accostamenti alla trap e processi per direttissima dal tribunale di Facebook della domenica per aver ucciso il vero rock n’ roll de na vorta, il 20 gennaio è uscito Rush!, terzo album in studio dei fab four di Monteverde.
Dal tetto del mondo, Damiano, Victoria, Ethan e Thomas hanno tirato fuori melodie sapientemente orecchiabili ed eccellenti hook che tutti possono cantare, non importa se si sappia l’inglese o meno.
Certo rock vaporoso e ironico non si è mai voluto prendere sul serio fino in fondo e una linguaccia col dito medio e i distorsori bastano e avanzano. La direzione che i Måneskin avevano preso con Mammamia e I wanna be your slave sembrava essere proprio questa: esagerata, sexy, glam, con qualche gradito “incidente” di percorso come Coraline, gran pezzaccio lento e struggente che non hanno ahimè più saputo replicare. Il rock sulle ballad ci ha campato, tuttavia per Damiano e i suoi è ancora questa la nota dolente. Molto più forti i pezzi veloci, il basso distorto e i testi ammiccanti e giocosi, non si capisce perché debbano giustificare svelando stratificazioni di cui è lecito dubitare e che non servono a niente.
Come Kool kids che scimmiotta egregiamente quel punk inglese sporco e cattivo, di cui Damiano imita anche il caratteristico marcato accento british, ma che funziona dannatamente meglio di qualsiasi altra sviolinata in minore.
Le ballad come Timezone rende decisamente meno, nonostante le promesse di verità struggente e lacrime a profusione. Senza i riff caciaroni ammiccanti, l’attitude di giovani rockstar che non devono niente a nessuno, non rimangono che sedute casse in quattro e strofa – ritornello – solo – ritornello di cui si faceva anche a meno nell’economia generale dell’opera.
Ma non si diventa icone pop con le composizioni sopraffine, non soltanto e non per forza, almeno. I Måneskin lo sono già e di dimostrazioni ai boomer con i paraocchi di turno non hanno intenzione di farne, a ragione.
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