Con il fiato sospeso e con un peso sul petto, in attesa che un giudizio finale lo sciolga, è così che si sta, guardando Saint Omer. Nessuna soluzione è possibile, purtroppo, perché nessuna sarà mai soddisfacente. È il dramma della madre, la tragedia della Medea, che viaggia senza tempo fino a oggi, cambia forma e cambia pelle, ma resta in qualche modo inafferrabile.
Leone d’argento come Gran Premio della giuria a Venezia 79, il film di Alice Diop è grande, come grandi se ne vedono pochi, soprattutto fra i debutti alla regia. È coraggioso e colpisce con violenza il pubblico negli antri più oscuri della morale, dove il cinema per sua natura riesce spesso a portare i suoi amanti a esplorare spaventosi punti di vista, con la promessa di riportarli indietro, sani e salvi.
Saint Omer è il nome della città in cui si svolge il processo al centro della storia, un processo per infanticidio ma di conseguenza un processo alla maternità. Lo osserviamo attraverso lo sguardo di una corte interamente femminile, di un’avvocata e un’imputata e, soprattutto, una silenziosa astante tra i banchi dell’aula. Si chiama Rama, docente e scrittrice, incuriosita dalla similitudine della storia di Laurence Coly con la tragedia greca. Incinta di pochi mesi ma ancora riluttante all’idea di condividere la notizia, Rama rivede qualcosa di sé nel tormento di Laurence, o forse pensa di riconoscere qualcosa della propria madre, della sua assenza e del suo rifiuto d’amore.
Donne e mostri: le chimere
Saint Omer si infila in un vicolo cieco già dalle sue premesse. Non vuole dimostrare l’innocenza della donna alla sbarra, vuole provare a spiegarne le ragioni e vuole ribadire che la responsabilità dei figli non è mai soltanto delle madri. It takes a village, si direbbe con un adagio inglese. Cade forse fragorosamente nel momento in cui, per uscire dal proprio labirinto, si aggrappa alla soluzione più ovvia, la follia. Eppure anche in questo caso, cos’è la follia? Un appiglio della difesa o la decisa affermazione di un diverso piano di realtà? La conclusione, con cui il film riesce a risalire la china, è abile nel lasciare intendere con ambiguità entrambe le cose.
Nel toccante monologo finale infatti è racchiuso tutto il senso del peregrinare di Saint Omer, dentro e fuori l’aula del tribunale, dentro e fuori i ricordi di Rama: diventa la risposta a chi tenta da sempre di processare le donne in quanto tali, senza mai capirle. Mostri ibridi, chimere che racchiudono “le loro madri e le loro figlie”, queste donne sono il mistero, l’incanto e la forza di Saint Omer.
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