Selma - Ava DuVernay 2014 - credits: selmamovie.com

What happens when a man says enough is enough?


Selma è il primo film biografico dedicato interamente alla figura di Martin Luther King, non tratta però né il suo generale attivismo né la celebre marcia del 1963. Nella storia del Movimento per il diritti civili, infatti, è essenziale anche un altro evento spesso tralasciato: le marce su Selma del marzo 1965. In tutto furono tre, ma la prima (Bloody Sunday) fu repressa nel sangue di fronte alle telecamere televisive. Soprattutto per questo esse colpirono fortemente l’opinione pubblica statunitense e convinsero il riluttante Presidente Johnson a firmare finalmente il Vote Rights Act.

Come film, Selma è un prodotto di difficile collocazione nel mercato cinematografico e forse anche per questo ancor più interessante nell’ottica del crossover. Cioè è un’opera che si rivolge contemporaneamente a due tipologie diverse di pubblico che si aspettano messaggi e contenuti diversi. Nasce come progetto poco ambizioso, al punto che dopo la rinuncia di Lee Daniels la produzione affidò la regia alla semi-esordiente Ava DuVernay. Con un passato prettamente documentaristico, infatti, DuVernay riuscì a gestire al meglio il budget molto ridotto e contemporaneamente riuscì a creare una prospettiva inedita. Non avendo inoltre i diritti di riproduzione dei discorsi originali di King, la regista li riscrisse di suo pugno, mantenendone il senso.

Il ruolo chiave di Ava DuVernay in Selma

È chiaro che trattandosi del primo biopic su Martin Luther King era essenziale che a realizzarlo fosse un autore afroamericano. Il fatto che il progetto sia casualmente ricaduto nelle mani di DuVernay costituisce persino un valore aggiunto. In primo luogo perché integra la visione femminile del Movimento per i diritti civili, spesso ignorata dai racconti storici. Si parla infatti degli eroi e dei leader, dimenticando che era un movimento collettivo di donne e di uomini. In secondo luogo perché nasce in parallelo a un altro grande movimento contemporaneo di matrice femminile. Il grido di Black Lives Matter inizia proprio a circolare tra il 2013 e il 2014, sul web, dalle donne stanche di temere continuamente per la vita dei proprio figli, fratelli o compagni.

Nello specifico, riguardo questi due aspetti, la prospettiva di DuVernay si riflette a livello filmico nella grande rilevanza data a ruoli “secondari”, come quello di Coretta Scott King (Carmen Ejogo), moglie del Reverendo. A livello metatestuale, invece, Selma diventa palesemente Ferguson, ossia la città in cui esplode per la prima volta Black Lives Matter. Il confronto è visivamente immediato: è sufficiente cercare una foto qualsiasi di quei giorni e metterla accanto alla scena della Bloody Sunday del film.

Inoltre il riferimento è evidente persino nel brano Glory, realizzato per la colonna sonora da John Legend e Common e vincitore dell’Oscar alla miglior canzone.

Selma is now. Resistance is us. That’s why Rosa [Parks, ndr] sat on the bus. That’s why we walk through Ferguson with our hands up.

Selma è adesso. La resistenza siamo noi. Ecco perché Rosa si è seduta sul bus. Ecco perché camminiamo per Ferguson con le mani in alto – Glory, Columbia Records/Sony Music Entertainment.
Selma (1965) - Ferguson (2014) - via web
Selma (1965) – Ferguson (2014) – via web

Si delinea sempre più davanti ai nostri occhi, quindi, che lo scopo di Selma non è solo quello di raccontare una storia, solo perché nessuno l’aveva fatto prima. Ava DuVernay ha scelto e ha dichiarato sin da subito di voler creare qualcosa in grado di colpire il pubblico nel suo presente. Proprio come le immagini televisive del 1965 colpirono centinaia di migliaia di spettatori. Solo sentendosi coinvolti (e sconvolti), infatti, si è disposti a intervenire e a cambiare le cose.

Martin Luther King e il Movimento: elementi complementari ma indipendenti

Quel che è davvero apprezzabile nel lavoro di Ava DuVernay in Selma è la capacità di raccontare contemporaneamente il grande leader, l’uomo e la grande collettività.

Martin Luther King è una figura generalmente molto amata, rispettata e presa come modello anche fuori dai confini dei diritti civili statunitensi. È diventato un’icona pacifista internazionale, ma questo ovviamente ha spogliato la sua immagine di alcuni elementi di complessità che, invece, sono essenziali. Ava DuVernay, per esempio, inserisce in un momento essenziale della trama le intercettazioni dell’FBI, quelle in cui il Reverendo veniva accusato di tradimento coniugale e depravazione. Un argomento così intimo (e così infimo, da parte del Governo), serve proprio a sgretolare l’idea piatta e univoca che si ha del simbolo e non dell’uomo. Serve inoltre, significativamente, ad allontanare Martin Luther King dalla scena della Bloody Sunday.

Egli non è presente alla prima marcia, né nel film né nella realtà. E questo significa che il Movimento per i diritti civili agiva indipendentemente dai suoi grandi leader. Ed è a questo senso di collettività, senza capi e senza volti-simbolo, che si rifà l’esperienza contemporanea di Black Lives Matter.

David Oyelowo in Selma (2014)
David Oyelowo in Selma (2014)

Questo, tuttavia, non preclude alla regista la possibilità e la volontà di rappresentare il Reverendo King come un’icona e un eroe. È sufficiente notare quante sono le inquadrature con angolazioni dal basso verso l’alto, che comunicano tutta la sua potenza e il suo carisma. David Oyelowo, nel ruolo di King, monopolizza gli sguardi e la macchina da presa ogni volta che compare in scena. Arriva a un livello di credibilità – della voce, del tono e dei gesti – che ci convince più di una volta di guardare qualcosa più vera del vero.

Nel momento in cui dunque Selma trascende la Storia stessa e riesce a fotografare il nostro presente, capiamo non solo che è un film da rivalutare nelle nostre personali classifiche, ma soprattutto che ancora c’è molta strada da fare per onorare il messaggio che veicola.

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