Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge. Credits: web

Chi era Monà? Una clochard, una vagabonda, forse una tossica. Questa e altre etichette le vengono affibbiate, anche dopo che il suo corpo viene trovato senza vita, assiderato in un fosso. Si apre così Senza tetto né legge (Sans toit ni loi, 1985), il lungometraggio di Agnès Varda premiato con il Leone d’oro a Venezia e col César all’interpretazione di Sandrine Bonnaire. Lo sguardo della regista parte dalla fine, da una morte liquidata nell’indifferenza e nei pregiudizi, «dal fosso alla fossa», per ripercorrere gli ultimi giorni della sua protagonista.

È un groviglio di umanissime contraddizioni, Monà, giovane donna che ha abbandonato un impiego da segretaria per girovagare con una tenda da campeggio e senza documenti nella campagna francese: tra autostop e soste (per volontà o fatalità) precarie, lavoretti e altri espedienti per rimediare del cibo, dell’alcol, del fumo. Tra desiderio e malinconia, anarchia e nichilismo, simpatia e noia per l’umanità che incrocia temporaneamente la sua strada. E che a sua volta riverbera in Monà le sue insufficienze, incoerenze e fragilità.

Varda non giudica, mostra la complessità polivalente del reale, con una tenerezza sempre lontana dal sentimentalismo e una crudezza al di qua della brutalità. Il suo approccio alla materia è irriducibile a definizioni e schemi univoci, mette in cortocircuito finzione e indagine documentaristica, empatia e straniamento. In questo, la sua senzatetto può ricordare la senzacasa di Nomadland, altro viaggio tra cronaca e poesia, realtà e reinterpretazione.

Ma qui non ci sono miti di frontiera da decostruire e (ri)fondare. C’è l’orizzonte esistenzialista, insieme affollato e desolato, degli antieroi e delle antieroine della Nouvelle Vague di cui Varda, oltre che esponente, è stata emblematica anticipatrice (con l’esordio La pointe courte, 1955). E l’umanità sofferta e senza compromessi di quel cinema, di quei personaggi immaginari e verissimi, consumati e irriducibili come Monà, pretende ancora di essere (ri)trovata: per riconoscerci, oltre ogni rassicurante steccato etico ed estetico, irrimediabilmente erranti.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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