“Il Mulan fatto bene”. Credo che questa sarà una delle tagline più inflazionate nelle recensioni e nelle discussioni su Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, film di Destin Daniel Cretton. E chi sono io per non concordare su tutta la linea?
L’universo Marvel dà il benvenuto a Shang-Chi, un nuovo supereroe che si aggiunge alla pletora di individui a cui siamo già più o meno affezionati. E lo fa con un film che si presenta come riproposizione delle dinamiche produttive e rappresentative – senza alcun dubbio efficacissime – di Black Panther (Ryan Coogler, 2018). La centralità dell’Africa e della black culture trasfigurano qui nel predominio assoluto della cultura e della rappresentanza cinese e asiatica.
Il ritorno alle origini
Shaun (Simu Liu) è un giovane che conduce una vita apparentemente normale e con poche ambizioni. Insieme all’amica Katy (Awkwafina, meravigliosa, sarebbe stato bello un focus più significativo sul suo personaggio) fa il parcheggiatore, ed entrambi sembrano accontentarsi di un lavoro di cui sono loro i primi a riconoscerne la non rispondenza alle loro capacità e intelligenza. Sarà il viaggio a Macao, sulle orme di Xialing (Meng’er Zhang), sorella di Shaun, che darà il via ad un processo di (ri)trovata coscienza della propria identità. Ridiventerà Shang-Chi, erede di due tradizioni di potere: quella legata al padre e ai Dieci Anelli, e quella legata alla madre e al dominio sugli elementi naturali, entrambe messe in scena attraverso le danze delle arti marziali.
Spogliato dell’aura action, soprannaturale, supereroistica, Shang-Chi è una dolorosa storia familiare: di come si riesca a elaborare il lutto, di come ci si ritrovi costretti a scaricare le responsabilità sugli altri per affrontare i propri, divoranti, sensi di colpa.
Nella narrazione che ci troviamo di fronte, e nonostante il passato di cui veniamo brevemente a conoscenza, il cattivo del film non si riesce mai a considerare veramente e puramente come tale, date le circostanze, data la pur accennata caratterizzazione. O forse, semplicemente, è un cattivo a cui la Marvel non ci ha mai del tutto abituati, e che ancora spicca come diverso laddove gli viene dato spazio, ovvero colui che è stato piegato dagli eventi e che suscita la comprensione spettatoriale. Non solo capiamo le sue ragioni, ma proviamo una combattuta empatia nei suoi confronti. E funziona proprio per questo.
La Cina e l’appartenenza
La narrazione viene discretamente dosata tra presente e passato, in maniera funzionale ma non fastidiosamente didascalica. Gli avvenimenti relativi all’unione e rinuncia dei due poteri, e all’infanzia dell’eroe (e dell’eroina!) sono distribuiti efficacemente con l’avanzare del racconto, con la progressiva presa di coscienza di Shang-Chi del proprio ruolo. La (ri)scoperta del proprio bagaglio culturale e familiare risuona con ancor più potenza perché contrappuntato dalla lontananza ed evanescenza dell’appartenenza sentita da Katy. La ragazza non potrà che abbracciare il viscerale attaccamento di Shang-Chi, per quella che possiamo solo immaginare sarà una ritrovata comunanza identitaria.
La Cina, con la sua cultura e le sue leggende, viene connotata con una capacità che si può misurare nella potenza attrazionale di alcune sequenze e nella resa grafica di ogni dettaglio. Nei momenti più spettacolari non si riesce a far altro che ammirare a bocca aperta la sinuosità della CGI, la ricchezza di particolari del design grafico, la precisione delle coreografie e la suadente armonia delle danze di combattimento.
Shang-Chi è sì un film di origini, ma più di una loro riscoperta e presa in carico. Per i profani della Marvel, è un film assolutamente godibile a sé, quasi privo di rimandi consistenti – e di cui è necessaria la comprensione – all’amplissimo universo di riferimento. Ma non mancano le tanto attese scene mid- e post-credits.
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