Son of Saul (Saul fia) è il primo film del regista ungherese László Nemes. Vincitore dell’Oscar 2016 come Migliore film straniero e Gran premio della giuria a Cannes nel 2015. L’opera è un sussurro fugace che si tiene stretta al concetto di umanità, e ai riti che rendono tale il protagonista Saul Ausländer, prigioniero e membro dei Sonderkommando.
Soggettive quasi assenti e bisbigli, come spine nella carne. I Sonderkommando sono i primi testimoni dei meccanismi di sterminio. Vittima e complice, Saul lo seguiamo a stretto contatto, ne percepiamo il sudore, la paura. L’annullamento di ogni pensiero o ragionamento è votato al silenzio dell’anima, per sopravvivere qualche mese in più. Fino al ritrovamento di un cadavere, che gli ricorda prepotentemente la vita e il lusso della sensibilità, schiacciato sotto al massacro reiterato a tutte le ore.
Ciò che colpisce nell’opera di Nemes è il farsi carico di una sfumatura della storia quasi mai affrontata: la sofferenza di chi viene “scelto” per affiancare il nemico e aiutarlo ad uccidere gli altri prigionieri del campo. Primo Levi scriveva che la creazione dei Sonderkommando fu “il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo”.
In maniera dinamicamente concitata la macchina da presa pedina Saul, ne restituisce l’azzeramento emotivo dato dalla morte onnipresente e l’affanno di voler rimanere in vita. La sua routine viene spezzata dal ritrovamento di un corpo nel quale crede di riconoscere suo figlio, e allora tutto diventa marginale, l’unico obiettivo è seppellirlo degnamente. Aggrappandosi alla ritualità della sepoltura l’uomo riscopre ciò che lo rendeva umano. E ritrova un senso di giustizia, negato con violenza nei meccanismi mostruosi del nazismo.
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