Tre titoli indimenticabili di Stanley Kubrick, testimonianze cinematografiche di una modernità senza tempo
Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) – Emanuele Bucci
Prima di Full Metal Jacket, la guerra e le gerarchie militari secondo Kubrick. Ordine e caos, i due poli opposti della poetica del regista, nella follia organizzata del conflitto armato vanno fatalmente d’accordo. E si traducono in carrellate angoscianti attraverso trincee reali e metaforiche, in schiere precarie di corpi che si piegano al suono degli spari. (A)simmetrie di un massacro che si consuma mentre il potere (bellico, politico e sociale) conversa, pianifica e festeggia nei suoi sontuosi palazzi.
Un racconto classico, dove il bene (sconfitto) ha il volto di Kirk Douglas, che ha difeso il film ostracizzato dalla Francia sciovinista e dall’America maccartista. Un racconto modernissimo, per come decostruisce ogni retorica dell’eroismo e del nazionalismo al cinema. Lasciando che le pedine sacrificali rubino la scena. E regalandoci nel finale uno dei brani più commoventi sull’arte che rompe steccati e distinzioni che alimentano i soprusi. Almeno per il tempo di una canzone.
Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) – Valeria Verbaro
Esistono due tipi di reazione alla dolce melodia di I’m Singing in the Rain. C’è chi l’associa alla gioia pura e spensierata di Gene Kelly e chi prova un brivido straniante pensando ai Drughi. In quella scena e in molte altre, Malcolm McDowell nei panni di Alex DeLarge è forse l’esperimento psicologico più radicale di Kubrick sul suo pubblico. Lo sa benissimo, il grande regista, che proprio in questo film ci propone la Cura Ludovico. Come se noi stessi dovessimo disintossicarci, dopo ogni visione, dal complesso piacere che provoca Arancia Meccanica.
Eppure non c’è il minimo pericolo di sprofondare nell’orrore di quella violenza. Kubrick lo afferma senza dirlo, perché costruisce un mondo così alienante e alienato da tenere sempre gli spettatori al sicuro, al di là dello specchio. L’estetica del film non è che una straordinaria parte di questo schermo protettivo. Un mondo in cui possiamo affacciarci ed entrare in contatto con impulsi terrificanti, senza mai farci risucchiare del tutto: What a glorious feeling/And I’m happy again (just singing in the rain).
Eyes Wide Shut (1999) – Giulia Losi
Eyes Wide Shut posso solo definirla un’esperienza visiva e sonora, un vero e proprio viaggio attraverso la psiche umana e i sensi. La cosa migliore per gustarlo al meglio è staccare il telefono e qualsiasi altra cosa e immergersi nelle sue atmosfere cupe e incredibilmente affascinanti. Il film ti trascina nei luoghi più reconditi della tua mente, anche quelli che non vorresti esplorare. Ma è giusto così, perché Eyes Wide Shut ti insegna che puoi anche programmare ogni cosa, ma la vita può sorprenderti in qualunque momento.