Steve McQueen by Cornerhouse Manchester su licenza CC BY-NC-ND 2.0

Il regista britannico è autore di quattro film e di una serie antologica in arrivo su Amazon Prime Video il prossimo 20 novembre. Lo aiuterà a risorgere dalle ceneri dei suoi due ultimi film?

Quando ho visto Shame al cinema, nel 2011, non mi pareva vero: non c’ho dormito la notte e la scena della corsa sulle note di Bach in cuffia che risuonavano nelle orecchie di Fassbender è una di quelle 20 sequenze che non dimenticherò mai. Pensavo che il nome del regista fosse uno pseudonimo fantasioso in omaggio all’attore cult dallo sguardo gelido.

In realtà Steve McQueen è il vero nome del regista che nel 2011 ha fatto promesse che non ha mantenuto a pieno. Dopo Shame andai a recuperare immediatamente Hunger (2008): stesso protagonista maschile, simile abuso del corpo, per un’altra bomba lanciata ad un pubblico in estasi.

Hunger (2008), Steve McQueen

I primi due film del regista britannico (e artista contemporaneo) sono esteticamente brutali, irrecuperabilmente destinati a scavare una voragine nello stomaco di chi guarda. Mentre il primo riesce, con pochi mezzi, a raccontare lo sciopero della fame irlandese del 1981 attraverso la trasparenza della pelle e il sacrificio del corpo, il secondo si avvale della lettura sospesa da ogni giudizio di una dipendenza che lascia il corpo intatto, lasciando marcire però l’anima.

Avevo grandi aspettative per il suo terzo lungometraggio, anche perché le premesse c’erano tutte, pure un Fassbender ormai rosso feticcio di una cinematografia in ascesa. Ma non è stato così.

Due su due

Il 2013 è l’anno di 12 anni schiavo (12 Years a Slave), un film attesissimo per i fan del regista. Tratto dall’autobiografia di Solomon Northup, musicista, scrittore e attivista ridotto in schiavitù in seguito ad un rapimento. Nel cast ritroviamo l’amato Fassbender, affiancato da Chiwetel Ejiofor nel ruolo del protagonista, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, (piccolissimo il suo ruolo ma fondamentale, dato che è anche il produttore) e Lupita Nyong’o.

Riguardo 12 anni schiavo, in redazione siamo piuttosto d’accordo sul fatto che rispetto ai primi due appaia mediocre. La produzione hollywoodiana non è un’occasione per McQueen ma purtroppo una condanna. Le dimensioni della narrazione nella poetica dell’autore si amplificano ma a perdere è l’anima. Della visione in un piccolo cinema a Trastevere del film che aspettavo da mesi ricordo una profonda insoddisfazione.

Stesso discorso per il quarto lungometraggio del regista, Widows – Eredità criminale (Widows) del 2018. Anche qui un cast ricchissimo e aspettative validissime (vista la collaborazione alla sceneggiatura della scrittrice  Gillian Flynn), ma purtroppo una risoluzione deludente che non arricchisce dopo la visione ma tende ad annoiare.

Analisi di un’occasione persa – 12 anno schiavo

Hollywood si insinua in maniera mortifera in quella brutalità e in quello spirito che rendeva McQueen così diverso e così sorprendente. Crea una mediazione, un punto di incontro con il pubblico mainstream da cui il cinema di McQueen non può che uscirne danneggiato. Innanzitutto perché 12 anni schiavo è una storia patetica, nel senso etimologico del termine. Insegue il pathos. Vuole costringere lo spettatore a provare compassione, ma la compassione è diversa dall’empatia. È un sentimento posticcio di pietà, in cui è impossibile immedesimarsi nei panni dell’altro, perché si è dominati dal senso di colpa per il proprio privilegio.

Il white guilt per pervade il film è infatti il vero problema. L’unico che non ci si aspetta da regista black (anche se britannico). Al di là del fatto che è ormai inconcepibile accettare i film sulla storia afroamericana solo se parlano di schiavitù e servitù (c’è stata anche la Harlem Renaissance degli anni Venti, per dire), è ancora più umiliante il fatto che tutto il male di un’intera società venga espiato nel film attraverso un unico personaggio, Epps (Michael Fassbender).

La schiavitù era il sistema economico che teneva in piedi tutti gli Stati Uniti del Sud e che ha continuato a farlo anche dopo la sua abolizione, fino al Movimento per i Diritti Civili. Non era il capriccio di un uomo malvagio (Epps). Non era sfortuna, non era destino. Era la legge del tempo, che stabiliva chi tra gli uomini era il padrone e chi la bestia. Il personaggio di Fassbender, per quanto meravigliosamente cinematografico, è storicamente sbagliato nella sua malvagità eccezionale e parossistica. Non è comunque il personaggio peggiore, perché tutto sprofonda nel momento in cui arriva Brad Pitt, il deus ex machina.

Al white guilt si aggiunge il white savior e il quadro è completo. Arriva l’eroe bianco, pronto a riportare l’equilibrio e la giustizia. Pronto a contrastare il malvagio antagonista. Per quanto soddisfacente ai fini della trama, è la goccia che fa traboccare il vaso, la conferma che questo film sia per un pubblico pavido, che nel cinema cerca un rifugio, una morale e un lieto fine. Niente a che vedere con lo sconvolgimento emotivo che si sperimenta guardando Hunger e Shame.

12 anni schiavo (2013), Steve McQueen

Storie di donne – Widows

Con Widows ho preso atto dell’ennesima delusione. Ispirazioni di prim’ordine per quanto riguarda la messa in scena di una forte femminilità (il film è tratto dalla serie televisiva omonima di Lynda La Plante, del 1983), ma un povero risultato. Il film mostra una violenza efferata e la messa a punto di una rapina da manuale da parte di tre vedove “criminali”. Nello stesso anno esce Ocean’s 8, e devo dire che già pensarli come simili dimostra quanto McQueen abbia fatto il secondo buco nell’acqua. Sembra quasi che le modalità espressive di Shame e Hunger appartengano ad un altro autore, e, epurato dall’esigenza di trattare coraggiosamente determinati temi, si inclini ad una massificazione della narrativa cinematografica.

Small Axe, sarà la volta buona?

Small Axe sarà il debutto televisivo del regista: è una serie antologica a sfondo politico di 5 episodi. Ogni puntata si concentrerà su eventi realmente accaduti che hanno coinvolto la comunità nera, ognuno in un tempo storico differente. Il primo episodio uscirà su Amazon Prime Video il prossimo 20 novembre.

Per l’ennesima volta ci siamo cascati, e torneremo a tentare la sorte per vedere se il formato televisivo può far risorgere dalle ceneri di un piatto intrattenimento le capacità di un regista che ha saputo dar forma a disperati stati del corpo e dell’animo, con grazia letale e descrittività illuminata.

Steve McQueen riceverà il secondo premio alla Carriera della Festa durante l’evento della Festa del Cinema di Roma, quale migliore occasione per chiedergli cosa è andato storto?

L’analisi di 12 anni schiavo è in collaborazione con Valeria Verbaro.
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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

3 Commenti

  1. […] Steve McQueen si dedica apertamente alla politica e lo fa attraverso una forma nuova e per lui inusuale: la serialità. Nonostante la lunga carriera anche come videoartista nei corto- e medio-metraggi, infatti, Small Axe rappresenta un vero e proprio debutto per McQueen nel format seriale. Naturalmente, però lo fa a modo suo, scegliendo una narrazione antologica, in cinque episodi separati tra loro e visibili in qualsiasi ordine. Ad accomunarli è appunto la visione politica, l’attivismo della e per la blackness in un momento storico in cui esso si è fatto essenziale. Il titolo fa infatti riferimento al proverbio “If you are the big tree, we are the small axe” (Se tu sei il grande albero, noi siamo la piccola ascia), un inno alla resistenza e alla lotta, reso celebre dall’omonima canzone di Bob Marley. […]

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