
Cos’hanno in comune due amanti in volo sopra una Colonia devastata dalla guerra, un padre che si ferma sotto la pioggia per allacciare le scarpe alla figlia piccola, un gruppo di soldati in marcia verso campo di prigionia, un prete in crisi che sogna di trasportare la sua croce in giro per la città? Queste, e altre, sono le situazioni (introdotte da una voce narrante femminile) che ci presenta Sulla infinitezza (2019), il film di Roy Andersson vincitore del Leone d’argento per la regia a Venezia 76, e finalmente nelle nostre sale dal 27 maggio.
«La vita è una tragedia. Non sono la prima persona a dirlo», afferma il regista e sceneggiatore svedese. Ma c’è una paradossale bellezza in questa tragedia grottesca che è l’esistenza: la si può cogliere, a patto che se ne guardi in faccia (anche) la parte peggiore, le piccole e grandi sofferenze, l’assurdità, la precarietà, la vulnerabilità. «Il tema principale del mio lavoro», spiega l’autore «è la vulnerabilità degli esseri umani».
Sulla infinitezza: tableaux vivants e scene ingabbiate
Che siano sacerdoti in terapia o tiranni ormai sconfitti, sono (sempre) vulnerabili i personaggi di Andersson, inquadrati in stranianti tableaux vivants dove la macchina da presa si mantiene immobile e distante. Quadri, o forse strisce umoristiche (quasi da Peanuts nordici, invecchiati e immalinconiti) le loro non-storie, scene orfane di un reale sviluppo, ingabbiate nella ripetizione delle stesse, tragicomiche dinamiche.
Sull’infinitezza non ha la stessa forza corrosiva e visionaria del Leone d’oro Un piccione seduto sul ramo riflette sull’esistenza (2014), conclusione e apice della Living Trilogy del regista. Ma ne conferma, e per certi versi supera, la radicalità dello sguardo sui destini umani, con una frammentazione narrativa ancora maggiore rispetto ai film precedenti. Tale da restituire proprio l’idea di «infinitezza», di splendida e misera varietà dell’esistere: mobile nella sua fissità, viva nel suo essere ostaggio della morte, ricca nella sua nuda fragilità.