Uno, due, tre rintocchi del martelletto su un triangolo, in primo piano, sullo sfondo di un paradiso marino in piena estate: un suono stridente che rompe il silenzio e si lascia seguire da esso, diffondendo un brivido d’inquietudine sulla pelle dello spettatore. È così che ha inizio Sundown, con l’annuncio sonoro di una narrazione che costringe la ragione a trovare una strada alternativa al senso comune per trovare il significato di quel che sta vedendo.
Presentato alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia, Sundown mette in scena la vicenda di una ricca famiglia inglese in vacanza in un lussuoso resort di Acapulco. La vacanza viene sconvolta dalla notizia improvvisa della morte di una donna, proprietaria dell’impero aziendale di cui la famiglia è ereditiera. Al momento dell’imbarco affrettato sull’aereo che li riporterà in Inghilterra per il funerale, un componente della famiglia finge di aver perso il passaporto, spegnendo il cellulare e lasciando i propri parenti al loro destino per abbandonarsi a vivere alla giornata fuori dal resort.
Estetica e struttura
L’assenza di musiche e una fotografia glaciale dipingono un Messico anestetizzato dai suoi colori accoglienti e lo trasfigurano in un luogo respingente, nel quale ogni essere umano è una minaccia. Il mare, la spiaggia, il cielo sono grigi come un autunno baltico sul quale non c’è alcuna melodia, ma solo dei rumori sordi che rimbombano nel silenzio. Una scelta stilistica che Michel Franco sembra utilizzare per riproporre l’insuperabile dicotomia sociale tra ricchi e poveri tracciata nel suo film precedente, il traumatico Nuevo Orden. L’impressione è che Sundown voglia rielaborarla proponendola come una dicotomia tra occidentali e messicani, fra turisti e indigeni, qualcosa che esplode oltre il limite della riserva protetta in cui sono rifugiati i primi, i resort, nel momento in cui ne escono entrando nella vita reale del Messico.
Eppure non è così. Perché in Sundown c’è un protagonista che stravolge la semplice struttura dicotomica e costringe lo spettatore in un faticosissimo gioco d’immedesimazione nei suoi confronti. Un gioco, apparentemente, impossibile. Esattamente come impossibile era l’immedesimazione con lo Straniero di Albert Camus, un personaggio che Franco sembra richiamare disegnando il suo protagonista: silenzioso e inespressivo fino a lasciare i suoi interlocutori disarmati, indecifrabile e irrazionale fino a lasciarli spettatori inermi.
Il protagonista perfetto
Michel Franco ci offre un uomo assurdo che prende i tratti vuoti, perfetti di Tim Roth, attorno ai quali girano le espressioni disperate di Charlotte Gainsbourg, incapaci di trovare una ragione, né un definitivo sfogo. Di fronte a questo personaggio, l’assenza di musica e la gelida fotografia non sono altro che l’inevitabile palcoscenico nel quale possono svolgersi le sue azioni, apparentemente amorali, irresponsabili, indifferenti, anaffettive, sicuramente lontane dal senso comune. E per questo assurde.
Solo il sangue, la morte, riesce a colorare questo palcoscenico. E indica una strada, forse la sola, che conduce finalmente all’immedesimazione, realizzando quello sconvolgente gioco, intenso e affascinante, nel quale Sundown riesce a coinvolgere lo spettatore.
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