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Gennaio 1968, Londra. Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason s’incontrano di buon ora a Regent Street, di fronte alla facoltà di architettura del Politecnico di Londra. Il posto dove si sono conosciuti e hanno deciso di mettere su una band chiamata Pink Floyd. 

In lontananza si avvicina una vecchia Bentley sgangherata: è David Gilmour, l’ultimo entrato nella band. Qualcuno guarda l’orologio e sbuffa, ma non dice nulla. Tutti sanno chi è l’unico a mancare all’appello e tutti, in fondo, se l’aspettavano. 

Ma Southampton non aspetta. Non quel giorno, almeno, non da quando hanno deciso di iniziare a fare sul serio. Senza che nessuno pronunci il suo nome, caricano gli strumenti nel portabagagli e, quasi senza pensarci, salgono in macchina. David mette in moto e parte.

Mentre infila le strade di Londra. Stanno tutti pensando a lui. Pensano alle sue ultime esibizioni, alle pasticche di Lsd che si era attaccato sulla fronte per scioglierle col sudore, al suo sguardo vuoto che si fissava su un punto imprecisato del palco, alle parole che si dimenticava di cantare dei testi scritti da lui stesso, ai momenti in cui decideva d’un colpo di scordare le corde della propria chitarra, o a quelli in cui, senza preavviso, si chinava sugli amplificatori abbassando o aumentandone il volume. Nessuno dice nulla, ma tutti sanno che al suo meglio, ormai, poteva pizzicare per minuti e minuti una sola corda, o sfiorarle senza suonare.

David sta pensando a come, ancora una volta, dovrà metterci una pezza, suonando e cantando al posto suo. D’altronde, era entrato nei Pink Floyd per questo, almeno ufficiosamente. Non si accorge nemmeno che sta già andando in direzione dell’autostrada. E solo in quel momento, quando sono certi che sia ormai troppo tardi, qualcuno apre finalmente la bocca: “Dovremmo preoccuparci di andarlo a recuperare?”. 

C’è un attimo di silenzio in cui tutti sentono sul corpo scorrere un brivido al limite tra la paura e la liberazione: anche l’automobile sembra risentire di quella domanda, pare rallentare improvvisamente. Finché qualcuno trova il coraggio di rispondere: “naa, non preoccupiamoci”.

Quella sera di gennaio del 1968 i Pink Floyd salgono sul palco per la prima volta senza il loro fondatore e leader Syd Barrett. 

L’addio di Syd Barrett

Syd Barrett non sembra reagire al colpo. Si chiude in casa e continua a produrre musica, solo, come forse voleva essere. Realizza due album, curati a distanza dai suoi amici e, ormai, ex compagni. Sembra uscito definitivamente dalle scene. 

Poi ricompare, nel 1972, sul palco del King’s College di Cambridge, la sua città, dove risiede nella prigione in cui ha scelto di recludersi. Lo ha convinto un bluesman americano che ha sentito tanto parlare di lui – o forse di quella che è già una leggenda. 

Ed è lui stesso a raccontare direttamente quell’evento, come il testimone oculare di una fine: “dopo aver eseguito Gigolo Aunt mormorò, forse a se stesso, di non ricordare il titolo di quella canzone scritta da lui. Non si trattò di un completo disastro, ma si potè avvertire nel pubblico una freddezza nei confronti di quello che era stato presentato come un grande ritorno, e nessuno invece si rendeva conto di essere di fronte a un uomo che si stava disintegrando, non uno spettacolo di finzione, ma una tragedia reale e inesorabile”.

Si è spesso sostenuto che Syd Barrett fosse schizofrenico o che l’abuso di droghe avesse distrutto il suo sistema nervoso. Qualche anno fa, uno studio italiano pubblicato sulla rivista scientifica Archives of Psychiatry, firmato dal presidente di Peter Pan Onlus Mario Campanella e dalla psichiatra Donatella Marazziti, sosteneva l’ipotesi che fosse affetto dalla sindrome di Asperger.

La sinestesia, la sua passione per i colori, il portamento ondulante tipico degli aspergeriani, l’isolamento, l’attrazione per la pittura, fanno propendere per l’ipotesi dell’Asperger”, scrive Campanella. “L’Asperger può essere ad alto funzionamento sociale”, continua cercando di rispondere alle prime istintive obiezioni, “ma, nella fattispecie, fu complicata da un uso smoderato di droghe e dalla co-presenza di un disturbo di personalità di cluster A”. 

Ipotesi, visto che Syd Barrett non è mai stato ricoverato in un ospedale psichiatrico che ne offrisse una diagnosi di psicosi e che, quindi, le allucinazioni e i deliri raccontati nella sua biografia potrebbero essere effetto di tutte le sostanze psicotrope di cui faceva un uso smodato e costante. 

Giugno 1975, Londra. Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason sono negli studi di Abbey Road, presi nella registrazione del loro nuovo album. I Pink Floyd hanno pubblicato qualche anno prima l’opera che qualsiasi band considererebbe quella definitiva, The Dark Side of the Moon.

Forse per questo hanno scelto di aprire le loro emozioni, quelle passate, e ricordare un amico, sparito ormai da tempo. Non pensando così di riuscire a fare qualcosa di meglio rispetto al disco precedente, ma, sicuramente, di differente. 

Di certo qualcuno, dentro quella sala, ha pensato almeno una volta a quel giorno di gennaio del 1968. Magari senza rimpianto, ma con quella strana emozione di fredda malinconia che si prova ripensando a una scelta giusta e inevitabile. Hanno deciso di intitolarlo Wish You Were Here, quasi per rendere esplicito il riferimento a quell’amico, perso ma non dimenticato. 

Quel giorno stanno registrando la lunga suite dedicata esplicitamente a Syd Barrett, quella che apre e chiude l’album e che hanno scelto di chiamare Shine On You Crazy Diamond: brilla, diamante pazzo. 

Mentre stanno provando per l’ennesima volta il pezzo alla ricerca della perfezione, in regia entra uno strano individuo, grasso, trasandato, completamente rasato, anche le sopracciglia, con una busta della spesa in mano.

Ci sono tante persone lì dentro, anche se i ragazzi della band dovrebbero conoscerle tutte. Ma quell’uomo non sembra conoscerlo nessuno. Si sistema in un angolo, in silenzio, tenendo stretta la sua busta e fissando un punto vuoto sul vetro che collega la regia con la sala prove. 

Nessuno gli bada più quando i quattro dentro la sala iniziano a suonare, ognuno segue col proprio battito cardiaco la batteria di Mason che aumenta il ritmo fino ad incontrare il fremito della chitarra di Gilmour e la ripetizione di quelle sue quattro note. 

Remember when you were young“, canta Gilmour, “you shone like the sun“, e il coro di Wright e Waters risponde “shine on you crazy diamond“. Ma quando Gilmour passa a cantare la strofa successiva, “Now there’s a look in your eyes, like black holes in the sky“, non si accorge che la risposta del coro è improvvisamente indebolita, come mancasse una delle due voci che lo compongono, ma continua trasportato dal pathos. La canta fino alla fine, senza accorgersi di essere rimasto solo, senza gli altri strumenti che si sono bloccati quando Waters, all’improvviso, si è strappato il basso dal corpo ed è rimasto immobile a fissare il vetro della regia, paralizzato. 

Gli altri lo fissano attoniti e si accorgono che dai suoi occhi iniziano ad uscire copiose le lacrime. 

Ma non lo riconoscete?”, domanda senza staccare gli occhi dal vetro, “è Syd“.

Escono tutti, ma non si dicono molto. Lui farfuglia qualcosa come: “dovremmo tornare a fare musica insieme…“, ma sembra che nessuno riesca a capirlo. Dopo la sorpresa e la commozione, subentra l’imbarazzo. Qualcuno gli chiede istintivamente cosa ne pensi del pezzo che stavano suonando e lui, strascicando a fatica le parole per evitare che si impastino una sull’altra, riesce a rispondere con un viso totalmente inespressivo: “non mi piace per niente“.

Dopo quell’incontro, Syd Barrett tornerà nella sua reclusione autoinflitta, senza più incrociare la strada di nessuno dei vecchi amici, e vedendo pochissime altre persone. Fino al giorno della sua morte, a 60 anni, il 7 luglio del 2006.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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