Oliver Stone se l’è immaginata più o meno così l’inizio di quell’esperienza:

Ray e Jim s’incontrano sulla spiaggia di Venice in California e si siedono in ginocchio sulla sabbia, uno di fronte all’altro. Due vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo.

“Che fai?”, chiede il primo.

“Scrivo”, risponde Jim, “canzoni, poesie, cose del genere”.

“Scrivi canzoni? Fammene sentire una”, lo incalza Ray.

Ma sul volto di Jim si disegna una linea di preoccupazione che subito viene mascherata da un sorriso sornione.

“Non posso, non so cantare”.

“Non canterai peggio di Dylan”, risponde l’amico scimmiottando il cantautore americano per poi concludere serio:

“Fammi sentire le tue parole”.

Il primo piano sul quaderno che Jim stringe tra le mani è stretto e lentamente si solleva sul suo viso. Ha gli occhi socchiusi e resta in silenzio per qualche istante, il tempo essenziale per convincersi e riempire i polmoni d’aria con un respiro. Poi esce la sua voce:

Let’s swim to the moon,

let’s climb through the tide,

penetrate the evening that the city sleeps to hide.

Let’s swim out tonight, love

it’s our turn to try,

parked beside the ocean on our moolight drive.

Jim riapre gli occhi in attesa di una reazione. Lo sguardo di Ray è ancora immobile, rapito da quella voce, e c’è un attimo di silenzio in cui sembra di avvertire un frastuono lontano, come le grida di una folla in delirio. Lo stridulo grido di un gabbiano spezza la nostra impressione e risveglia lo stesso Ray per permettergli di esprimere il nostro stesso pensiero:

“È un testo grandioso, amico. Lo hai scritto tu? Ce ne sono altri qui?”, dice indicando il quaderno.

“Ho un intero concerto dentro la testa”, risponde Jim.

“Mettiamo su una band di rock ‘n roll”, dice Ray entusiasta mentre si alzano dalla sabbia per camminare lungo la riva, “è il momento, lo puoi sentire nell’aria, Jim, le persone vogliono combattere o scopare, amare o uccidere, il Vietnam sta là, dietro l’angolo e bisogna scegliere da che parte stare, brucerà tutto e questo pianeta chiede un grande cambiamento!”.

Poi si volta verso Jim, lo guarda negli occhi e dice:

“Noi dobbiamo creare dei miti”.

Una scena dal film The doors: Jim e Ray passeggiano sulla spiaggia di Venice – Credits: Youtube

1965: la prima demo

Oliver Stone se l’è immaginato così, come un incontro rivelatore tra due vecchi compagni di università, due semplici ragazzi che di lì a poco avrebbero scritto un capitolo fondamentale della storia della musica ricoprendo i ruoli di cantante e tastierista: Jim Morrison e Ray Manzarek.

E, forse, il regista americano non deve aver fatto uno sforzo d’immaginazione sorprendente. Quell’incontro, infatti, se mai ci sia effettivamente stato, deve essere avvenuto proprio in estate, quella del 1965. Perché il 3 Settembre di quello stesso anno i due amici escono dal World Pacific Jazz Studio di Los Angeles con la prima demo della band cui danno il nome The doors.

Insieme a loro, il batterista John Densmore e i due fratelli di Ray, Rick e Jim Manzarek.

Non è una demo qualunque. In essa sono incisi brani che si estenderanno per tre anni, tracciando il percorso musicale dei Doors. C’è, End of the night che compare nel primo album omonimo della band, ci sono My eyes have seen you e la stessa Moonlight drive che vengono pubblicate nel secondo Strange Days, ci sono, infine, Hello, I love you e Summer’s almost gone del terzo disco Waiting for the sun.

È una demo che ci racconta qualcosa di prezioso, ovvero la rapida evoluzione musicale dei Doors.

I brani simbolo che li fanno passare alla storia della musica con il primo album, infatti, sembrano trovare qui le loro origini. Accennando a ritmiche analoghe e abbozzandone l’atmosfera. Il ritmo di My eyes have seen you e Hello, I love you danno l’impressione di essere il bocciolo dal quale fiorirà Light my fire, così come l’atmosfera perturbante di End of the night sembra presagire all’enfasi estatica di The end.

Una delle prime foto della formazione definitiva dei Doors – Credits: web

Le ragioni del successo

D’altronde, la formazione che dà vita a quel demo è ancora mancante di un pezzo fondamentale: il chitarrista Robby Krieger. Lui, con le sue armonie influenzate dal flamenco, le sonorità free jazz, gli effetti della sua Gibson Les Paul capaci di alternare acidità e dolcezza, le tracce di musica indiana e classica, le distensioni di slide al limite del blues psichedelico.

Anche Krieger era un amico. La leggenda vuole che Ray lo avesse conosciuto insieme a John in un incontro di meditazione trascendentale tenuto dal famoso guru Maharishi Mahesh Yogi. Il suo ingresso nei Doors corrisponde all’abbandono dei fratelli di Manzarek che – davvero poco lungimiranti – non vedevano un buon potenziale nella band.

Dei tre fratelli resta quello più talentuoso, Ray. Con la sua straordinaria capacità tecnica, si adatta al ruolo di bassista, appoggiando sopra al suo organo un Fender Rohdes Piano Bass da suonare con la mano sinistra per lasciare la destra libera di tracciare le melodie fondamentali alla band.

La scelta del doppio ruolo di Ray è tutt’altro che casuale. La band, infatti, compie un gran numero di audizioni per trovare il bassista, eppure quello che non riescono a trovare non è un buon musicista, ma una persona che potesse conciliarsi umanamente con loro. Come a dimostrare che The Doors, prima di essere un gruppo musicale, è un gruppo di amici.

Con la chitarra di Krieger e le note profonde della tastiera di Manzarek, i ritmi tribali di Densmore esplodono in incursioni selvagge che danno solo l’impressione di abbandonarsi alla perdizione, riprendendosi sempre grazie al suo rigore jazzistico. È proprio quest’ultimo uno dei caratteri fondamentali dei Doors, quella sua capacità di tratteggiare i limiti esteriori della maggior parte dei loro brani, salvandoli dalla deriva di una mancanza di forma.

Con questa formazione, quella definitiva, i Doors portano la loro demo per i locali di Los Angeles, ottenendo ingaggi fondamentali per la loro musica. Attraverso le esperienze live, infatti, si definisce sempre più un affiatamento che lascia ad ognuno la libertà di esprimersi senza perdersi nel proprio assolo e di fare di quest’ultimo una parte integrante del sound complessivo. L’atmosfera che si crea è quella unica di un’esperienza-limite, vissuta sul ciglio vertiginoso di un abisso dal quale ci si salva solo attraverso il sostegno dei propri compagni.

La foto mitica di Jim Morrison – Credits: web

L’insanabile incrinatura

Poi tutto è andato in pezzi. I Doors sono diventati sempre più Jim Morrison, e Jim Morrison ha perso sempre di più il controllo. Fino ad autdistruggersi e a distruggere quello straordinario equilibrio di musica e amicizia. La batteria di Densmore non è stata più in grado di dettare i ritmi della ripresa della melodia dalle dilatazioni psichedeliche, gli slide di Krieger hanno smesso di scivolare con la stessa solita armonia, l’organo di Manzarek ha iniziato a inseguire la melodia, senza più crearla, lasciandosi alle spalle gli altri, E Morrison è diventato schiavo della sua stessa celebrità, costretto da essa ad eccedere oltre la musica per fare di sé stesso un mito vivente.

E così Oliver Stone ha immaginato anche l’inizio della fine di questa esperienza. Ha scelto un momento preciso per mettere in scena il principio di un’incrinatura insanabile, il momento sensibile in cui il gruppo smette di essere un gruppo di amici, prendendo definitivamente due strade opposte.

La locandina del film The door, di Oliver Stone (1991) – Credits: web

L’inizio della fine negli occhi di Oliver Stone

È la festa di Andy Warhol. Luci soffuse e psichedeliche, la telecamera non riesce a stare dritta tra le decine di personaggi stravaganti, folli, tra l’alcol, gli acidi e gli allucinogeni, mentre suona in sottofondo il fibrillante ritmo distorto dei Velvet Underground.

Nel caos della scena, compare la voce familiare di Ray:

“Su Jim, andiamo”.

La cadenza della musica si fa improvvisamente armonica, una batteria detta un regolare ritmo cardiaco e una chitarra elettrica pulita arpeggia delle note fragili, rilassanti che sembrano appartenere a un sogno. Ma c’è qualcosa in esse di inquietante: sembrano colare come lacrime.

“D’accordo”, risponde lui con l’ubbidienza di un bambino arreso, poi ci ripensa: “Ma non volete conoscere Andy Warhol?”.

“A dire la verità ne faccio tranquillamente a meno, è uno spostato”, risponde severo John. E continua con un tono paterno: “Su, domani abbiamo un grosso concerto, vieni?”.

“Un momento, un momento”, risponde Jim con la voce roca e impastata, “credevo che saremmo stati un gruppo di rock’n’roll. Noi quattro”.

“Jim, questo giro non ci appartiene”, dice materno Ray, mentre la voce quieta di Lou Reed inizia ad intonare l’abbandono alla dipendenza di Heroin.

“Queste persone sono vampiri”, sussurra ancora Ray creando una magnifica disarmonia con l’illusoria calma del brano. “Dobbiamo creare dei miti”, continua per convincerlo con una costante dolcezza, “te lo ricordi?”.

Ma Jim è un bambino che non ha voglia di tornare a casa:

“Forza ragazzi, non stasera”, dice lamentoso. Poi si ferma e con un sospiro accompagna un sorriso rassegnato: “Non so cosa accadrà… forse la morte”.

Il primo piano di John rivela un sorriso paterno, eppure distorto:

“Questa non è la morte, amico”, sospira rassegnato, “ci vediamo domani”.

Il ritmo di Heroin si fa incalzante, il battito cardiaco è al limite della sopportazione fisica e la voce di Lou Reed è all’apice del piacere tossico.

Proprio sulla soglia della stanza dove lo aspetta Warhol, Jim s’incrocia con una figura del tutto identica a lui: come in una danza, i due si guardano, sembrano riconoscersi, e, senza pronunciare parola, continuano a fissarsi girando uno attorno all’altro, fino a confondere lo spettatore su chi dei due sia il protagonista che stava seguendo con lo sguardo.

Fino a infondergli la sensazione che da quel momento in poi ha inizio un’altra storia, quella tragica del mito.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.