Betty-Gilpin-in-The-Hunt-film-2019
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Nel corso del mese di marzo di questo sciagurato anno, ho captato un certo fermento online riguardo un fantomatico film intitolato The Hunt. Mi sono lasciata suggestionare dalle atmosfere che il titolo e le poche immagini intraviste mi hanno evocato, senza approfondire per non inficiare il piacere più puro della scoperta di un film visto a scatola chiusa. E ora ho recuperato, trovando qualcosa che sinceramente non mi aspettavo, non del tutto in senso positivo.

UNA GENESI PROBLEMATICA

The Hunt, di Craig Zobel, è liberamente tratto da The Most Dangerous Game, un racconto di Richard Connell del 1924 da cui, nel corso degli anni, sono state tratte diverse opere, cinematografiche e non. La distribuzione e ricezione del film sono state costellate da una serie infinita di avvenimenti: alcune stragi avvenute nel 2019 negli Stati Uniti, dei tweet infuocati di Trump e, infine, la pandemia globale. Possiamo quindi goderci The Hunt grazie allo streaming on demand, su piattaforme come Chili e TIMVISION.

UN PRIMO ATTO CHE LASCIA SPIAZZATI

Degli sconosciuti si risvegliano in quello che sembra un bosco e, dopo aver ricevuto delle armi, capiscono di essere nel bel mezzo di un gioco al massacro architettato da misteriosi carnefici. Chi li perseguita? E perché proprio loro?

Il film inizia con quello che in seguito si rivelerà un eccesso didascalico pressoché inutile, che però fa già storcere il naso di chi non ama gli spiegoni. Sarà pieno di riferimenti, più o meno velati, al chi e al perché di quello che sta accadendo; non c’era a mio parere necessità di fare una tale premessa, così come non si sentiva il bisogno della pur simpatica scena sull’aereo privato. È stata persa l’occasione di iniziare in medias res un racconto che chiedeva a gran voce di essere strutturato in tal modo.

Tuttavia, se dobbiamo dare un merito a questo inizio film, è quello di mettere subito bene in chiaro quale sia il tono della narrazione. Atteggiamenti placidi di fronte alla violenza, bulbi oculari infilzati in tacchi 12, penne a sfera insanguinate restituite con indifferenza al proprietario dopo essere state usate per scopi ben lontani dallo scrivere. Il grottesco, l’ironia e lo splatter non ci abbandoneranno per tutta la durata del film.

È con il dettaglio degli occhi di Emma Roberts che si schiudono, in un campo che ricorda l’inizio degli Hunger Games, che il film avrebbe dovuto cominciare. Da lì parte il primo atto, probabilmente il migliore, in cui, grazie anche a un montaggio molto intelligente, si verifica un passaggio di testimone al cardiopalma tra i vari personaggi. In una soluzione di hitchcockiana memoria, coloro che crediamo essere i protagonisti del film vengono successivamente eliminati dal plot, destando ovvio sgomento nello spettatore. Vorrei sottolineare che tra questi supposti protagonisti ci sono attori estremamente famosi, quali Emma Roberts (American Horror Story, Scream Queens) e Justin Hartley (This Is Us). È quindi il riconoscimento del volto noto che ci porta necessariamente a dare per scontato che dato personaggio sia al sicuro, con il conseguente shock identificativo. E quanto è bello rimanere a bocca aperta quando ciò accade.

POLEMICA E POLITICA

È fin da subito manifesto il sottotesto politico della pellicola. Ed è forse questa eccessiva retorica a far storcere inizialmente il naso. I ricchi idealisti e politically correct che cacciano e uccidono la working class un po’ ignorante solo perché possono farlo hanno alimentato le polemiche negli Stati Uniti che, come accennavo, hanno in parte causato la mancata uscita nelle sale del film.

Interpretazioni e vari misunderstanding hanno inteso gli abbienti liberali come cacciatori spietati degli elettori di Donald Trump. Lasciate da parte queste discussioni, la rivelazione del perché di tutto, più che politicizzato, sembra avere a che fare con la mera volontà di vendetta. Qui la scelta delle vittime è stabilita attraverso il repost di uno screenshot. Ma ciò che viene subito in mente è la 3×06 di Black Mirror, Hated in the Nation, in cui era l’impiego di un hashtag a rivelarsi fatale. Avrei preferito che la motivazione fosse un’altra e che il film prendesse una piega diversa? Sì, ma qui entra in gioco il gusto personale.

“I THINK YOU SHOULD BE SNOWBALL”

La scelta delle vittime, operata preferendo coloro che più degli altri vanno contro la morale dell’élite degli aguzzini, culmina con Snowball/Crystal (Betty Gilpin). È Athena (Hilary Swank), la capobranco, a darle questo soprannome. Così come il nome della tenuta, The Manor, e la presenza del maialino, è un riferimento ad Animal Farm di George Orwell. Sono gli stessi personaggi a esplicitarlo, quando Snowball mostra di conoscere l’origine del suo soprannome. E meglio di Athena, che sembra averle affibbiato il nomignolo solo perché Snowball è un maiale. La sorpresa di Athena nel constatare che la ragazza ha letto il libro – oltre ad averlo evidentemente capito meglio di lei –  è ulteriore segno del malriposto sdegno e pregiudizio nei suoi confronti.

Appare evidente che Snowball sia la protagonista solo dopo 25 minuti di film. Betty Gilpin (GLOW) è indubbiamente la cosa più bella del film. Una recitazione che sussume in sé la cattiveria e l’ironia proprie del film, e una faccia di tolla memorabile. Spesso laconica e silenziosa, dal volto particolare, che sembra una perfetta fusione tra Jodie Comer e Toni Collette, appare spanne sopra la pur brava Hilary Swank. In generale spicca per ruolo e capacità su un parterre di attori che rimangono, nonostante tutto, sullo sfondo della scena che, da quando se ne appropria, rimane totalmente sua.

FRENESIA E METANARRAZIONE

Regia e montaggio (che mi hanno ricordato, se pure in modo attenuato, quelli di Kingsman: The Secret Service) si mostrano all’altezza del dinamismo del racconto. Soprattutto in alcune scene, tra cui quella alla stazione di servizio e quella del corpo a corpo finale. Quest’ultima è davvero notevole, e l’omaggio alla scena iniziale di Kill Bill: Volume 1, in cui Beatrix Kiddo e Vernita Green attraversano la casa di quest’ultima dandosele di santa ragione è evidente.

The Hunt – CREDITS: Web

È quasi una sua versione alternativa in cui l’intento parodico e quasi metanarrativo culmina con l’esclamazione di Athena “No more glass!” e lei che apre la porta per non esservi scaraventata contro, evitando di spaccare l’ennesimo vetro. In effetti le scene di combattimento furioso in interni sono spesso colme di specchi infranti, servizi di porcellana distrutti e finestre in mille pezzi. Sono queste le perle disseminate nel corpo del film che rendono degna la sua visione.

The Hunt rappresenta qualcosa di nuovo? Assolutamente no. Ma la riproposizione del già visto è realizzata con consapevolezza, e per questo riesce ad avere la sua dignità. I tanti elementi che, per tutta la durata del film, riescono a lasciarti con gli occhi sgranati, a strapparti una risata, o a farti ammirare la tecnica, sono il grande tesoro di un film come questo.

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