La natura è matrigna, nel cinema di Robert Eggers. È la culla che dividiamo senza pace con l’altro, il perturbante, l’oscuro in cui si specchiano le nostre paure. È oceano, sirena e scoglio che genera, seduce e uccide per inghiottire nuovamente i suoi figli. È l’abisso dove le categorie del pensiero umano si sgretolano e il profondo sommerge un pezzo alla volta le capanne della razionalità.
Dopo la foresta di The Witch (2015), l’abisso di The Lighthouse ha la forma di un’isola rocciosa in mezzo al mare, visitata dalle tempeste e da leggende di mostri marini e gabbiani in cui abita l’anima di marinai defunti. Il suo stregone è il dispotico guardiano del faro (Willem Dafoe), al cui segreto luminoso non lascia accedere nessuno. Nemmeno il nuovo aiutante (Robert Pattinson), boscaiolo canadese con la coscienza macchiata.
Padre e figlio, vecchio e giovane, padrone e operaio, sacerdote ed eretico. Nei due protagonisti isolati e abbandonati dalla civiltà s’incarna la faglia sadomasochista dei rapporti umani, mentre litri di rum accompagnano la discesa nella follia, durante la quale il regista-sceneggiatore esonda oltre i codici dell’horror. E nei labirinti onirici del bianco e nero come nel concerto di suoni meccanici echeggiano suggestioni cinefile, dall’espressionismo tedesco a Lynch: la casa-faro sembra un po’ figlia (anche) della fabbrica-mente di Eraserhead.
Ma è l’immaginario di Edgar Allan Poe a confermarsi matrice dell’apologo, nell’ossessione (a)morale del soggetto rappresa in animali sinistri, fantasie omicide e affabulazioni barocche. Rendendo indistinguibili realtà e allucinazione, verità e menzogna, veglia e incubo. Così, le coordinate spazio-temporali si erodono come i corpi-anime offesi dall’umidità. E il faro-monolite si rivela il fantasma di un dio che ci sprofonda nel sepolcro di terra e acqua da cui eravamo emersi.
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