thenumberofthebeast
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The Number of the Beast è il terzo album in studio degli Iron Maiden uscito esattamente 39 anni fa.

The Number of the beast mi venne regalato per Natale, avevo 14 anni. Lo chiesi a mia zia che rimase perplessa prima di acquistarlo, era abituata a regalarmi Barbie, e ancora di più dopo averlo incartato con una carta fantasia e aver notato il diavolo in copertina. “Ma sei sicura che possa ascoltarlo?” chiese a mia madre. Neanche il tempo di finire la frase che ero chiusa in camera con lo stereo ad un volume discutibile. Ero letteralmente passata da Barbie taglia e acconcia al mio primo album degli Iron Maiden.

I primi due li avevo ricevuti in prestito dai ragazzi metallari più grandi di me, al liceo, che provavano il pomeriggio facendosi aprire appositamente l’aula di musica. Con The Number of the beast potevo finalmente dire di avere un pezzetto di maiden tutto mio, da ascoltare all’infinito.

Cos’erano gli Iron Maiden per un’adolescente dei primi anni 2000? Sicuramente qualcosa di molto simile a quello che rappresentavano per un adolescente di metà anni ’80: RIBELLIONE. La simbologia metal era affascinante e sinceramente non conoscevo i volti dei componenti del gruppo, era finito il tempo del più carino, il più dolce, il più scontroso. I membri della band non comparivano tra le pagine di Cioè come gli *NSYNC.

Iron Maiden – 1982, web

Lo stile e le tematiche dei testi rientravano in una mentalità ben precisa, in cui le borchie e le catene non erano che l’inizio dell’adesione. Riascoltando l’album oggi, a 39 anni dalla pubblicazione, continuo a trovarci qualcosa di più profondo che li differenzia dagli altri gruppi metal, nobilitandoli in un’oscura marcia fatta di autoironia e passione per il frastuono dei live durata fino al tour più recente (2018/2019).

L’album

The Number of the beast è del 1982, è il primo album con il nuovo cantante, Bruce Dickinson, dopo l’allontanamento di Paul Di’Anno. Otto tracce, tra cui la quinta che dà il titolo all’intero album. Il numero della bestia, 666, è un chiaro riferimento al diavolo e il testo introduttivo è tratto direttamente dal libro biblico dell’Apocalisse. Inutile dire che, avendo la stessa sorte di tanti altri gruppi metal, l’album fu boicottato e fioccarono le accuse di satanismo.

A ben vedere le ispirazioni per i brani del gruppo spaziano dal cinema, alla serialità televisiva, toccando temi storici e influenze letterarie. The Number of the beast infatti si basa sulla connessione tra il poema Tam o’ Shanter del poeta e compositore scozzese Robert Burns (pubblicato nel 1791) e un sogno, fatto dal bassista Steve Harris dopo aver visto il film La maledizione di Damien (un horror del 1978 di Don Taylor). La canzone ne unisce le suggestioni, raccontando di un uomo perso in un inferno terrestre dove, dopo un’iniziale reticenza, cede alla debolezza del male.

Nello stesso senso anche le altre canzoni si immergono in un oceano di riferimenti ed ispirazioni: Children of the Damned richiama il film Il villaggio dei dannati (1960), Run to the Hills descrive gli scontri fra inglesi e nativi d’America durante gli anni della colonizzazione degli Stati Uniti e The Prisoner si ispira all’omonima serie televisiva (introduce il pezzo infatti un dialogo tratto dal telefilm).

Fondamentalmente pensavo di disobbedire al sistema quando invece mi ritrovavo ad ascoltare canzoni che citavano le stesse poesie che la mia insegnante di letteratura inglese spiegava a lezione.

Del diavolo rimane la presenza beffarda sulla copertina dell’album, accanto all’immancabile mascotte Edward The Head, creata da Derek Riggs e presente su tutte le copertine.

The Number of the beast – Iron Maiden (1982)

Cosa significa ascoltare The Number of the beast oggi? Fare un tuffo nel passato dell’heavy metal più puro, ma imparare anche la lezione che non bastano le apparenze per catalogare un album. Satana non è che uno strano pretesto per scendere negli abissi delle contaminazioni ricercate. E nonostante le borchie riposte in un cassetto, la musica continua a suonare.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.