Esattamente il 14 ottobre di dieci anni fa usciva This Must Be the Place, del premio Oscar Paolo Sorrentino con protagonista Sean Penn.
Uno dei film più intimi del regista, un’intimità palpabile già dal titolo.
Chi conosce bene Paolo Sorrentino, è consapevole della sua passione per i Talking Heads, tanto da dedicargli il premio Oscar e da intitolare questo lungometraggio proprio come una canzone del medesimo gruppo musicale.
Il regista ci racconta la storia di Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar, personaggio criptico e complesso, che vive con la moglie da trent’anni, e che è circondato da sfarzo e lusso di cui però non sente di aver bisogno.
Il passato da celebrità gli consente di vivere una vita senza obblighi e doveri che, però, lo catapulta nell’apatia e nell’insoddisfazione più totale. Il protagonista non riesce più a sorprendersi, non riesce più a provare emozioni, tanto da far trasudare inettitudine, perfino dal modo di parlare, svogliato, lento e trascinato. Potrebbe vivere nell’agio e nella spensieratezza, ma non ci riesce. Non riesce a sentirsi risoluto, vive da sempre con una voragine interiore senza mai essere riuscito a colmarla.
Sarà poi il tragico evento della morte del padre ad aprirgli gli occhi e a fargli compiere un viaggio, sia geografico che interiore; un viaggio che lo condurrà alla piena consapevolezza della sua persona e gli consentirà finalmente di colmare quel perenne senso di vuoto.
Il vuoto intorno e il vuoto dentro
Cheyenne è circondato dal “troppo” e dal “tutto” che corrisponde al “niente”. Vive in una villa lussuosa, ricca di camere enormi, ma vuote di ogni cosa, la stessa piscina gigantesca, situata nel giardino che circonda la dimora, risulta essere vuota e mai stata riempita.
Questo grande spazio, da dove riecheggia l’eco del nulla cosmico, corrisponde esattamente al grande vuoto e alle immense lacune interiori, di cui è vittima il protagonista e che lo rende incline alla noia assoluta.
La ricerca dell’interiorità perduta e la mancanza della figura paterna
La rockstar, di cui in realtà è rimasta solo una maschera dai capelli corvini cotonati e smalto pasticciato, decide, dopo la morte del genitore, di iniziare un viaggio alla ricerca di colui che in passato, durante la guerra, aveva umiliato proprio quest’ultimo.
Il viaggio intrapreso, in realtà, si scopre essere un cammino verso la ricerca della propria persona.
Ruolo rilevante è affidato ad alcuni personaggi con i quali il protagonista si interfaccia durante il cammino. Lo aiuteranno a far chiarezza dentro di sé e a fargli capire quali siano le motivazioni reali della sua infanzia irrisolta. In particolar modo, messianico e risolutore, sarà l’incontro con Rachel (Kerry Condon), ragazza-madre che rivivrà, insieme a Cheyenne, la mancanza di una figura maschile nella sua vita.
Nel film vi è un uso massivo di paesaggi allegorici, come la villa-museo vuota in cui vive il protagonista o come l’enorme distesa di ghiaccio con al centro un’unica casa, abitata dal nazista, a cui Cheyenne dà la caccia, per vendicare suo padre a causa delle continue umiliazioni da parte del tedesco.
Questi luoghi allegorici creano una sensazione di emarginazione e freddezza, connessa alla mancanza di una figura paterna nella vita.
Nonostante la vendetta sia servita sul piatto d’argento, la rockstar decide di non consumarla, perché comprende, che in realtà, il vero scopo del suo viaggio sta nel ritrovare se stesso attraverso la paradossale riconciliazione con l’unico elemento di congiunzione con il padre, ovvero il suo persecutore.
Da quel momento per Cheyenne tutto diventa chiaro e realistico, la sua esistenza tormentata ed irrisolta, dipende esclusivamente dall’assenza roboante del padre nella sua vita e soprattutto nella sua infanzia.
Cheyenne, uno spirito da bambino in un corpo da adulto
La mancanza della figura paterna ha inciso nettamente sul percorso di crescita di Cheyenne, bloccandolo e facendolo rimanere un eterno fanciullo. Praticamente un bambino, nel corpo di un adulto. Ed è proprio un personaggio del film a renderlo esplicito, dicendogli: “Non hai mai voluto fumare perché sei un bambino. Solo i bambini non provano mai il desiderio di fumare”.
Infatti il protagonista di adulto ha ben poco. Indossa vestiti scuri, ha sul viso una maschera di trucco dark, ma sono tutti connotati poco credibili, perché, ciò che veramente emerge con prepotenza, è il suo camminare goffamente, in modo sperduto e distratto, proprio come fanno i bambini.
Girovagando, cerca di infondersi stabilità e sicurezza, aggrappandosi e sostenendosi ad un trolley, quel sostegno che sarebbe dovuto arrivare da un padre mai stato presente.
Cheyenne diventa adulto solo dopo aver incontrato l’unico punto di connessione con il padre, il suo carnefice (Heinz Lieven).
Questo tardivo passaggio, dall’essere bambino al diventare adulto, lo si evince proprio nel gesto di maturità del protagonista, che decide di ottenere vendetta, non più con l’uccisione di colui che aveva umiliato il padre, ma avvalendosi solo della casualità della vita, che prima o poi presenta il conto a tutti, senza dimenticare nessuno.
La malinconica paura di diventare adulti, da soli
Così, come accadrà nel nuovo film: È stata la mano di Dio, che uscirà nelle sale il 24 Novembre, Paolo Sorrentino, in This Must Be the Place, si è misurato con il rapporto “genitori-figli”.
In modo disincantato e malinconico, il regista palesa estremi autobiografici che rappresentano le colonne portanti dell’intero film, ovvero la mancanza di una o di entrambe le figure genitoriali e le conseguenze che ne derivano dalla loro privazione, soprattutto in età infantile.
Per quanto possa risultare pauroso, il diventare adulti e maturi senza la figura genitoriale, è comunque un passaggio necessario. E seppur in età adulta, Cheyenne, per la prima volta in tutta la sua vita, ha deciso di non aver paura, essere coraggioso e diventare finalmente un uomo adulto.
Perché, come recita proprio lui: “Bisogna scegliere una volta nella vita, anche solo una, in cui non avere paura”.
Continua a seguire FRAMED anche su Facebook, Instagram e Telegram.