Si può filmare l’al di qua del filmabile? Documentare il non ancora documentabile? Pensare ciò che precede (e trascende) il pensiero umano? È la scommessa di un film come Voyage of Time: Il cammino della vita (2016), nelle sale italiane dal 3 marzo per Double Line (con la collaborazione de Lo Scrittoio). Scrive e dirige Terrence Malick, che di questo lavoro aveva realizzato anche una versione IMAX di 40 minuti con la voce narrante del co-produttore Brad Pitt.
Ed è tanto più difficile, oggi, separare il film e le sue ambizioni dal dibattito sul percorso del regista. Tanto acclamato ai tempi dei primi lungometraggi (da La rabbia giovane a La sottile linea rossa passando per I giorni del cielo) quanto discusso e persino rifiutato con i più recenti (To the Wonder, Knight of Cups, Song to Song).
Voyage of Time è per molti versi un caso a sé, e insieme un lavoro emblematico non solo dell’ultima fase, ma dell’intero percorso del cineasta texano. Apoteosi di una poetica della natura e coronazione di un progetto durato oltre tre decadi, quello mettere in film l’origine dell’universo e della vita sulla Terra. Se ne vedevano già abbondanti tracce in The Tree of Life (2011), punto di svolta nella filmografia del regista verso un discorso meno facilmente leggibile (e da molti accusato di deriva estetizzante e intellettualistica).
Ma nemmeno nei più criptici lavori successivi il distacco dalla forma narrativa tradizionale è stato così radicale come in Voyage of Time. Né lo è stata la sfida alle possibilità e alle distinzioni formali del prodotto cinematografico, a partire da quella tra documentario e finzione. Perché, al di là e al di qua di ogni valutazione, percorrere Voyage of Time significa misurarsi simultaneamente con un documentario scientifico, un poema audiovisivo e un dialogo filosofico sui generis.
L’inizio e le domande
Frutto di un confronto con biologi, fisici e naturalisti degno del regista perfezionista per antonomasia (le travagliate lavorazioni dei suoi film stanno a dimostrarlo), Voyage of Time parte letteralmente dal principio. E qui sta già un paradossale sconfinamento oltre i limiti del ponderabile e del rappresentabile. Una schermata buia che eccede le risposte della scienza e diventa interpretazione, immaginazione, speculazione auto-contraddittoria. Dove si apre il primo atto del poema metafisico, in cui il Verbo ha la voce di Cate Blanchett, voce (non) narrante rivolta a una «Madre» che (non) l’ha (ancora) creata.
La Vita, con la coscienza di cui si è (o è stata?) dotata interroga dunque la Natura: l’«abisso di luce» da cui promana e di cui è parte «attraverso il tempo». Un dialogo-monologo in forma di domande, di dubbi a cui non c’è né ci sarà mai la risposta verbale di un’altra voce. Perché l’unica risposta possibile è quella di una creazione-evoluzione che si srotola dal Big-Bang alla comparsa degli ominidi. Passando per fiumi di lava, acque in cui affondano le prime forme di vita, deserti, movimenti vegetali e animali incessanti.
Ma non è un viaggio-poema-dialogo lineare. Le immagini di oggi, di un’umanità che ci rimanda ai paesi in via di sviluppo e al caotico, diseguale, sofferente labirinto della società odierna, intervallano il racconto di come tutto ha avuto inizio. Perché più del come l’ingranaggio si sia messo in moto, l’interrogativo supremo sembra essere un altro. Come può il meccanismo della Natura abbracciare in sé contrasti tanto stridenti, a partire da quello tra la nascita e la morte, l’unione e la separazione, la luce e l’oscurità? E per quanto durerà ancora questo moto di continua distruzione e (ri)nascita?
Dell’amore e del cinema
Impresa ancora più temeraria del porsi simili questioni è tentare di darsi delle risposte. Il cineasta (laureato in filosofia) Malick, a modo suo, sembra trovarne almeno una. Ed ha a che vedere con la fede (oltre la stessa distinzione tra laico e religioso) nell’«amore» come forza motrice della vita. La quale, malgrado tutto, continua a dibattersi e a (ri)generarsi in (e da) ciò che è. E qui, forse, il regista-Icaro finisce con lo scottarsi le ali. Denunciando il contrasto tra le smisurate aspirazioni e i limiti dell’ente-film. Coi suoi miliardi di anni condensati in novanta minuti. Con la sua voce narrante che sconfina oltre i limiti del didascalico. Ma soprattutto con la necessità di chiudersi nel (suo) tempo lineare. Scegliendo di farlo con un punto che sutura i contrasti, anziché con una domanda che lasci la ferita aperta.
Restano però la forza e il coraggio di un’opera che osa farsi esperienza a trecentosessanta gradi. Sensoriale e concettuale, divulgativa e sperimentale. Con una capacità di sposare la tecnica all’umanesimo che rimanda al 2001 di Kubrick, anche per la presenza dello grande e da poco scomparso artista degli effetti speciali Douglas Trumbull. Ma a ben vedere la duplice tensione che innerva Voyage of Time risale a molto prima, alla doppia natura da sempre intrinseca al mezzo filmico. Da un lato, il desiderio di meravigliarsi, dall’altro quello di conoscere. Nel tenerli insieme fino in fondo, Malick realizza anche, e forse soprattutto, un atto d’amore al cinema. E mostra quanto esso possa spingersi in alto, anche a costo di bruciarsi con la luce che ci ha generato.
Continua a seguire FRAMED per rimanere aggiornato sulle uscite in sala e sulle piattaforme streaming. Puoi seguirci anche su Instagram, Facebook e Telegram.