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West Side Story (Steven Spielberg, 2021) - Credits Walts Disney Studios Motion Pictures

Più un nuovo adattamento del musical del 1957 che un remake del film dei dieci Oscar del 1961, West Side Story è il nuovo, meraviglioso, sorprendente film di Steven Spielberg. Analogamente a moltissimi film in sala in questo periodo, West Side Story è stato girato nel 2019, e la sua uscita era prevista a dicembre 2020: la chiusura dei cinema ha fatto sì che sia diventato il film di questo Natale. Anche se – ahimè – si ritrova a competere, pur se tematicamente in campionati diversi, sul terreno comune del blockbuster con Spider-Man – No Way Home, che purtroppo gli ruberà moltissima luce, contribuendo a segnarne un probabilissimo flop, nonostante l’accoglienza critica positivissima.

Anche se dovrebbe essere la conclusione più che l’esordio di questa recensione, vi dico: invadete le sale, permettetevi di vivere al cinema un’esperienza irripetibile. Per i nostalgici di epoche del cinema passate come me, questo sarà un tuffo stordente nella magia unica del musical hollywoodiano, un’esperienza genuinamente commovente, soprattutto per coloro che sono particolarmente legati al film di Robert Wise e Jerome Robbins. Ho guardato tutto il film a qualche centimetro dalla poltroncina, con il corpo leggero e trasportato in un mondo perduto, in quell’energia e quella maestosità vissute finalmente sul grande schermo – ed è quello che mi auguro e so che accadrà anche a voi. Per chi non conosce o non ama il cinema classico hollywoodiano, per chi odia i musical: dategli e datevi una possibilità.

Mente libera e cuore aperto, via i pregiudizi, via i costrutti; abbandonatevi allo schermo e lasciatevi catturare dalla più grande storia d’amore mai raccontata.

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Tony (Ansel Elgort) e Maria (Rachel Zegler) in West Side Story – Credits Walt Disney Studios Motion Pictures

Montecchi e Capuleti del West Side

Siamo ancora negli anni ’50 nell’Upper West Side di Manhattan, New York. Nonostante la gentrificazione stia gradualmente sgomberando l’area, i Jets e gli Sharks continuano imperterriti la loro atavica lotta per il territorio. In una guerra tra poveri, i Jets (i bianchi underdogs – immigrati europei di seconda generazione) e gli Sharks (gli immigrati portoricani) si odiano con un impeto che trova una spiegazione solo nella volontà di conservare la sola cosa per cui, ai loro occhi, valga la pena lottare, l’unica àncora per un’appartenenza a qualcosa, oltre che a qualcuno (la loro famiglia acquisita). Per i Jets è un arroccarsi sull’unico elemento che è loro rimasto, che sentono come loro, il luogo dove vivono; mentre per gli Sharks è il necessario tassello su cui costruire un futuro in America, un voler imporre la loro presenza fisica per guadagnarsi poi un posto morale.

Entrambe le gang vengono “perseguitate” dal tenente Schrank e dall’agente Krupke, che cercano di mantenere l’ordine su un suolo di macerie. A fondare i Jets sono stati Riff, che ancora ne è a capo, e Tony, che dopo aver rischiato di cadere nell’abisso si è convertito in bravo ragazzo e onesto lavoratore, distanziandosi dai suoi fratelli di spirito. Gli Sharks sono capitanati da Bernardo, che è emigrato in America con la sua compagna Anita e la sorella più piccola, Maria. Quando Tony e Maria si incontrano e si innamorano, durante un furioso e coloratissimo ballo, il destino della lotta spietata tra rivali acquisirà un cupo tono di morte.

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Riff (Mike Faist) in West Side Story – Credits Walt Disney Studios Motion Pictures

Un classico contemporaneo

La tragedia shakesperiana torna in questo nuovo adattamento cinematografico del musical di Broadway, un all-time favorite del regista, Steven Spielberg, che fin dal 2014 ha mostrato interesse nel voler maneggiare tale materia. La sceneggiatura è opera di Tony Kushner, che già ha collaborato con il regista in Munich e Lincoln, premio Pulitzer per Angels in America – Fantasia gay su temi nazionali. Mentre le sbalorditive coreografie sono del giovanissimo Justin Peck (vincitore del Tony Award per Carousel). Tornano le musiche di Leonard Bernstein e i testi del compianto Stephen Sondheim, che non necessitano di presentazioni.

Il mettere le mani su un musical tanto amato per portarlo al cinema, anche con la prestigiosa mano di Spielberg, non era qualcosa in cui si riponesse particolare speranza. È forse proprio per questo che il risultato riesce così tanto a stupire, a lasciare esterrefatti davanti a una bellezza unica nel panorama cinematografico di oggi. La sensazione che si ha è quella di tornare indietro nel tempo, ad un cinema che non esiste più, e la cosa straordinaria è che sia stato un film contemporaneo a riuscire in questa missione. Non una riproposizione sul grande schermo di un classico.

Spielberg si è mantenuto incredibilmente fedele all’originale, riuscendo ad aggiornare alcuni degli aspetti che, data l’epoca, risultavano trattati più superficialmente. A questo proposito basti pensare al personaggio di Anybodys, che da tomboy nel film del 1961 diventa qui un ragazzo trans, definendo e inquadrando il percorso narrativo del personaggio in tutt’altra – e più degna – ottica. Spielberg è riuscito a riempire quei buchi narrativi e psicologici attorno ai personaggi del 1961, scavando più verticalmente nella loro storia personale, rendendo possibile un processo empatico più marcato.

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Valentina (Rita Moreno) in West Side Story – Credits Walt Disney Studios Motion Pictures

Questo problema si avvertiva in modo più evidente con i protagonisti Tony e Maria, che erano poco più di due figurine, pedine di una storia d’amore la cui credibilità risultava retta, in fin dei conti, più da chi li circondava che da loro stessi. Qui i personaggi acquisiscono un background che, per quanto accennato, riempie il vuoto in cui essi si muovevano in precedenza, rendendoceli più solidi, più veri.

Il messaggio del film risulta ancora tristemente attuale, arricchendosi di sfumature date dalla consapevolezza sociale di un regista che lavora nella contemporaneità. La copia pedissequa sarebbe stata impossibile, anacronistica, ma riproporre fedelmente senza “tradire” lo spirito aggiungendo al contempo un necessario tocco moderno era impresa non facile. Spielberg ci è riuscito – ancora fa strano crederlo, scriverlo –  alla perfezione.

L’aver rispettato l’ordine dei numeri musicali del libretto originale riesce a ribaltare nella percezione spettatoriale il senso e il peso di alcune sequenze, acuendone il doloroso contrasto emotivo. I feel pretty è un esempio cardine in tal senso. E al contempo è in grado di darci la misura dell’efficace inventiva del regista nel modificare senza tradire, accentuando anzi la potenza dei numeri musicali e del loro significato: Maria non lavora in un negozio di vestiti da sposa, ma fa le pulizie, il suo sentirsi pretty perché innamorata è ancora più d’impatto, dato il contesto. Cool, similmente, mostra la capacità di Spielberg di reinventare consapevolmente la materia.

Il cast

Senza il casting giusto, il nuovo West Side Story sarebbe stato un bell’involucro senza contenuto, un pranzo gustosissimo senza poterne sentire il sapore (i tempi mi suscitano tali cupe metafore). E finalmente, nel ruolo dei portoricani, sono state fatte scelte socialmente consapevoli del valore politico della giusta rappresentanza attoriale. Addio brownface (ricordiamo che anche Rita Moreno, portoricana!, aveva dovuto accettare uno “scurimento” con il make-up). E addio anche alle canzoni cantate da altri. Qui si balla, si canta e si recita.

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Anita (Ariana DeBose) e Bernardo (David Alvarez) in West Side Story – Credits Walt Disney Studios Motion Pictures

Come accennavo in precedenza, i personaggi più memorabili del film del 1961 non sono gli sciagurati Tony e Maria, ma gli strabilianti comprimari.

L’Anita di Rita Moreno è forse ciò che di quel film più si è impresso nella memoria collettiva, le sue strafottenti sgambettate, la sua grinta travolgente, le sue parole taglienti. E, guarda un po’, la nuova Anita, interpretata da Ariana DeBose, è (insieme a colui che citerò a breve) la cosa più bella del film. Le capacità di canto e ballo del nuovo cast sono praticamente inattaccabili, ma DeBose spicca per la furiosa sinuosità e apparente facilità con cui esegue coreografie straordinariamente complesse, e per la forza di un timbro che è impossibile scordare. Questo senza lasciare da parte una performance attoriale che imprime un marchio distintivo su tutto il film, che mi auguro le varrà una candidatura ai prossimi Oscar, in un passaggio di consegne tra Rita Moreno e lei.

A proposito di Rita Moreno: impossibile non menzionare il suo commovente ritorno, qui, nei panni di un personaggio creato appositamente per lei, Valentina, la vedova portoricana del Doc (bianco) dell’opera originale. A cui verrà affidata una delle canzoni chiave del secondo atto, Somewhere (preparate i fazzoletti).

La controparte maschile che entra nel cuore è senza ombra di dubbio il Riff di Mike Faist. Prendendo il testimone di Russ Tamblyn, Faist (candidato al Tony Award per Dear Evan Hansen) infonde una calda umanità al personaggio. Mai la definizione “volto interessante” fu così appropriata: Faist buca lo schermo, non si aspetta altro con altrettanta trepidazione se non il momento in cui lui torna in scena. E come balla, signore e signori: Spielberg ha affermato che, pur di avere nel cast Mike Faist, sarebbe stato disposto a posticipare le riprese del film.

La nemesi di Riff, Bernardo è l’ultimo vertice del triangolo dei comprimari che rubano la scena. La longilinea figura di George Chakiris lascia spazio a David Alvarez, uno dei più giovani vincitori del Tony Award per il Migliore attore protagonista in un musical, ottenuto per il ruolo di Billy Elliott. Il suo Bernardo è più possente, più dolce e più sanguigno.

La coppia TonyMaria (Richard BeymerNatalie Wood nel 1961) viene portata in scena da Ansel Elgort (Baby Driver – Il genio della truffa) e l’esordiente Rachel Zegler (YouTuber, la prossima Biancaneve). Zegler fa finalmente cantare Maria. Nel 1961, le parti di Natalie Wood erano cantate da Marni Nixon, celebre prestavoce di Hollywood: tra gli altri, suoi i ruoli canori di Audrey Hepburn in My Fair Lady e di Deborah Kerr ne Il re ed io. La giovane attrice infonde una verve inedita al personaggio, che i più temevano sarebbe risultata male accoppiata con l’interpretazione di Elgort. L’attore dal viso non particolarmente espressivo si rivela tuttavia un buon Tony. Forse rimanendo comunque l’anello debole di un cast al limite della perfezione.

L’elefante nella stanza è l’accusa di violenza sessuale mossa nei confronti di Elgort nel 2020, un anno dopo le riprese di West Side Story. Senza entrare nel merito di cosa sia o non sia la verità, il peso di tale accusa risuona nell’accoglienza popolare del film. Se i pareri sembrano essere assolutamente positivi, ciò che più di frequente si legge e si sente è il gravoso astio nei confronti di Elgort e della sua interpretazione. Come anche da me affermato, nonostante sia stato in grado di stupire, la sua performance rimane forse la meno incisiva. Il problema è che nelle critiche mosse alla sua interpretazione si confondono, purtroppo quasi senza soluzione di continuità, i giudizi sulla persona e quelli sull’attore.

La volontà di “cancellare” Ansel Elgort non influirà probabilmente sull’affluenza nelle sale (soprattutto in Italia, dove probabilmente questa storia è meno nota), che è invece insidiata da altre più concrete “minacce”. Ma si presenta come una macchia di cui forse è nostro dovere tenere conto nell’analizzare il film in quanto fenomeno commerciale e sociale, oltre che artistico.

Il trailer ufficiale di West Side Story

Non mi resta che dirvi ancora una volta di andare a vedere West Side Story in sala, di lasciarvi vincere da un nostalgico spettacolo che raramente è possibile incontrare nella propria esperienza cinematografica. E, perché no, magari riuscirà a incuriosirvi sul primo adattamento, sul musical di Broadway. Vi assicuro che una volta conquistati dalla magia di questo racconto ne vorrete sempre di più.

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