«Certe cose accadono», chiosa con umorismo gogoliano la voce narrante di What Do We See When We Look At The Sky?, a commento della surreale fiaba d’amore che è il secondo lungometraggio di Alexandre Koberidze (qui anche sceneggiatore e montatore). E che, dopo aver partecipato in concorso a Berlino 2021, ha stregato la Giuria Professionale del Pesaro Film Festival (che gli ha tributato la Menzione Speciale) ed è stato acquistato per la distribuzione da MUBI.

Cosa accade, allora, in questo film? Per esempio che, nella città di Kutaisi, in Georgia, una donna e un uomo s’incontrino più volte per caso (?), fino a decidere di darsi un appuntamento. Ma un sortilegio fa sì che i due, al risveglio, abbiano mutato aspetto, rendendosi vicendevolmente irriconoscibili. E mentre entrambi (orfani anche delle precedenti occupazioni) trovano lavoro nel bar dove avevano programmato di incontrarsi (e dove continuano ad aspettarsi ignari), la vita scorre insieme e intorno a loro.

La realtà magica narrata da Koberidze

È una love story decisamente non convenzionale, questo nuovo lavoro di Koberidze, che continua a trattare i grandi nodi dell’esistenza attraverso il suo sguardo eccentrico e straniante. Come la guerra nel precedente Let The Summer Never Come Again (2017), qui l’amore della coppia è collocato sovente nelle «periferie visive» dell’inquadratura. Con la voce del cantafiabe che riassume interi brani e dialoghi. E con l’occhio della macchina da presa che stringe sulle sole gambe dei due amanti ai primi incontri. O si allontana lasciandoli perdere nei campi lunghi e lunghissimi della cittadina.

Perché l’amore, a ben vedere, abbraccia l’intera (sur)realtà magica e quotidiana del microcosmo narrato: dove i cani sono tifosi di calcio e una grondaia può parlare per mettere in guardia dal malocchio. E tanto una partita dei Mondiali (vista dall’altezza dei bambini che giocano sulle note di Notti magiche) quanto il lavoro di una troupe cinematografica finiscono col dar luogo ad epifanie (in)attese. Dove il mondo, con un ottimismo tutt’altro che ingenuo, (ri)trova un po’ di calore e poetica fiducia nei suoi spiragli di bellezza.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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