Film d’apertura della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, White Noise (Rumore Bianco) è l’adattamento cinematografico che Noah Baumbach fa del romanzo di Don DeLillo (1985), riuscendo nell’impresa
Caotica vita di voci sovrapposte e paure di cui solo chi è uscito dalla modernità può provare: White Noise elabora una tipologia di narrazione per nulla facile da tradurre in un film, alcuni dei più grandi lo hanno sperimentato ottenendo scarsi risultati (come Cosmopolis di David Cronenberg).
Noah Baumbach non solo ci riesce, ma è capace di regalarci un ulteriore livello di coinvolgimento. White Noise è un film che modula con maestria le emozioni di chi guarda e lo fa quasi sottoponendolo a un incantesimo ipnotico della visione. L’adattamento guida le nostre sensazioni, che si sviluppano per l’arco di tutta la durata, in un caleidoscopio confusionario e inarrestabile.
Il dramma si sostituisce alla comicità delle situazioni: dalla risata inevitabile di fronte all’ironia della vita ci ritroviamo con le sopracciglia corrucciate in cerca di una soluzione per venir fuori dal senso di paura che ci soffoca come in un incubo.
Il regista dirige un cast formidabile al servizio della parola di DeLillo, punto di riferimento massimo per realizzare quella che nei suoi romanzi è l’esistenza, diretta e istantanea, problematica e lacerata, ricca di ossessioni che rendono gli individui ciò che sono, per metà maschere e per metà mosaici in carne ed ossa fatti di pezzetti di storia passata e contemporaneità sconosciuta.
La coreografia di una famiglia americana
Lo si capisce dai primi momenti: Baumbach ci introduce in una danza di movimenti non subito ascrivibili ad una coreografia. I personaggi, in balia del loro radicato egocentrismo ma anche proiettati verso il mondo esterno in costante cambiamento, si affidano a gesti sicuri e misurati. Come fare la spesa al supermercato, oasi incontrastata del capitalismo in cui la società trova un luogo accogliente, dove poter prendere decisioni contenute, progettato per poter dare l’illusione della scelta.
Quella danza si svela nei titoli di coda, in cui tutto il cast si serve della scenografia del supermercato per mostrare finalmente una coreografia di passi. Come marionette si muovono tra le corsie, al servizio di azioni che si ripetono, ancora e ancora, che fanno parte ormai della loro vita. Su questa idea chiave White Noise si sviluppa, raccontando gli eventi che coinvolgono la famiglia di Jack Gladney (Adam Driver) e sua moglie Babette (Greta Gerwig).
Quella danza è l’adesione silenziosa di esseri umani prigionieri di uno stile di vita al servizio del consumismo e fagocitati dall’attrazione verso incidenti e tragedie, ma sempre a una giusta distanza dalla propria casa.
Trasporre lo stile postmoderno di DeLillo in un film
Il libro di DeLillo è diviso in tre parti, così come il film, ed è uno dei massimi esempi di quello che può essere definito un romanzo postmoderno. Il rumore bianco è quell’affollato sottostrato di elaborazioni mentali (spesso fini a se stesse) intaccate dalla paranoia, il sibilo prodotto dai media, dal capitalismo e dalle nuove tecnologie che vanno a modificare la quotidianità. E la paura delle cospirazioni, il dubbio che ogni cosa fosse migliore prima. Ma soprattutto la paura di morire, onnipresente come un rumore bianco che avvolge ogni cosa senza mostrarsi mai agli occhi.
Ambientato nel 1984, White Noise apre uno squarcio su un’epoca affetta da insicurezze, dove improvvisamente le cose vanno più veloci e i figli sono una nuova generazione di esseri umani più attenti e intelligenti (che parlano come enciclopedie). Un’epoca in cui i grandi miti della modernità sono gli unici punti di riferimento a cui votare la propria attenzione.
Nel libro, come nel film, Jack è il massimo esperto di Hitler studies (studi hitleriani), campo di ricerca da lui stesso inventato. Quando con la sua toga nera dona agli studenti vere e proprie performance sul “mito” di una figura storica così controversa, si trasforma, indossando una maschera che toglie prima di tornare a casa, dai figli. Lo stesso vale per Babette, insegnante di ginnastica posturale e madre attenta sempre pronta a confidarsi con suo marito, che però segretamente assume un farmaco sconosciuto chiamato Dylar che le causa preoccupanti vuoti di memoria. Entrambi sono terrorizzati dalla morte, ci pensano costantemente, è il tappeto invisibile su cui le loro certezze da famiglia borghese scivolano.
La cultura americana si sovrappone all’interpretazione di essa, l’indole problematica di donne e uomini moderni (post moderni) si perde nel terrore di essere ingannati: dal governo, dagli alieni, dalla morte. E lasciare che il sentimento primitivo di sopravvivenza metta a tacere per un po’ la necessità di interpretare ogni cosa diventa una possibile boccata d’aria.
La voce di DeLillo e la sua lettura sarcastica di una deriva della società e di chi la compone viene trasposta nel film con attenzione. Le tematiche costanti nella sua letteratura sono tutte presenti nel lavoro di Baumbach, che le fa sue.
L’esposizione alla nube tossica – La paura di morire che diventa tangibile
Nella seconda parte una nube tossica di rifiuti chimici minaccia la città. Proprio qui l’alternanza dei toni della scrittura di DeLillo prende corpo nel film. La modulazione di registro avviene tra la noncuranza di Jack nei confronti di quello che sta per diventare un disastro ambientale al terrore di ammalarsi per un’esposizione di un paio di minuti, e di morire, ovviamente.
La famiglia Gladney diventa effettivamente parte di una folla in fuga, alla ricerca della sopravvivenza. Un gruppo di persone unite da un unico scopo, ma anche trascinate dall’impeto di non morire. Come la folla al seguito dei proclami di Hitler, che allontanava il concetto di morte, noncurante della distruzione altrui. O la folla che secondo il collega di Jack, il prof. Murray Siskind (Don Cheadle), venerava un re come Elvis, alla ricerca di salvezza.
La luce sui personaggi cambia e proietta diversamente l’attenzione, portando la storia dalla comedy al disaster movie, diventando poi un thriller e finendo con la commedia romantica. Il tutto continuamente attraversato da domande, confronti, descrizioni e flussi di coscienza. Dalla necessità di interpretare tutto, sempre. Questo è il postmoderno che diventa cinema.
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