Sidse Babett Knudsen e Sandra Guldberg Kampp in

Quella di Wildland, film danese vincitore del trentesimo Noir in Festival (e già passato a Berlino 2020), è una storia di Kød & blod, come ci anticipa il titolo originale: “carne e sangue”. Una carne dove sembra essere inciso il marchio di un destino avverso: perché ad alcune persone, come dice la diciassettenne Ida (Sandra Guldberg Kampp), «le cose vanno male ancora prima di cominciare». Un sangue che è il dio e la patria del clan familiare capeggiato da Bodil (Sidse Babett Knudsen), zia e nuova tutrice di Ida, rimasta orfana. Per la ragazza è l’ingresso nei codici e nei vincoli di parenti che non ricordava ma che ora sono la sua (nuova) casa. Una casa dove per vivere si pratica l’usura e dove una volta accolti è molto difficile chiamarsi fuori.

Ciò che, con queste premesse, sarebbe potuto essere un sanguinario mafia-movie, nelle mani della regista Jeanette Nordahl (al suo lungometraggio d’esordio) e della sceneggiatrice Ingeborg Topsøe (da un soggetto di entrambe) diventa qualcos’altro: una parabola dolorosa di adolescenza ingabbiata e tradita dalle logiche opposte e complementari di uno Stato che c’è solo al momento sbagliato e di un anti-Stato familista che si nutre delle difficoltà altrui. Un affresco di umanità variamente disperata, in una terra di nessuno dove il diritto di scelta pare negato in partenza (a tutti?) perché le alternative non si vedono.

Questo è il buio in cui brancolano, si scontrano, si abbracciano e si avvinghiano i personaggi di Wildland, antitetici sia ad antieroi da tragedia criminale sia a tipi sociali da osservare con freddo distacco naturalista. Lo sguardo di Nordahl è rigoroso ma carico di una sofferta empatia verso le complesse figure del suo dramma, e in particolare verso le donne diversamente in lotta contro un’esistenza ostile. La regista non schiaffa giudizi o millanta facili soluzioni, ma non fa nemmeno sconti. La violenza è fuori campo o fuori fuoco, ma le sue terribili conseguenze su chi la compie, la subisce, la guarda si guadagnano il centro della rappresentazione.

Una via che spariglia codici e generi, un’opera prima matura e mai banale che speriamo di (ri)vedere presto sugli schermi, possibilmente grandi quanto meritano le tante e contraddittorie sfumature di verità sui volti e negli occhi delle sue protagoniste.

Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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