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Mentre scriviamo queste righe, non sappiamo ancora se il possibile ritiro ventilato da Woody Allen nelle sue dichiarazioni di inizio giugno al Financial Times («Se nessuno può produrre il film e non c’è un posto dove proiettarlo […] potrei semplicemente smettere di fare cinema») si tradurrà in fatto.

La nostra speranza, in ogni caso, è che la tragedia del Covid-19, nelle sue gravi ripercussioni sul sistema cinema mondiale, non ci costringa a salutare il prossimo (e pre-pandemia) film del regista, Rifkin’s Festival (atteso in anteprima a San Sebastián), come l’ultimo lungometraggio da lui diretto.

Perché significherebbe perdere un autore tra i maggiori del cinema contemporaneo e che, riteniamo a dispetto dell’opinione di molti, proprio negli ultimi anni (almeno prima della campagna mediatica di cui è stato fatto tristemente oggetto), ha attraversato una delle fasi più felici della sua carriera: per quanto parlare di “felicità”, nel mondo alleniano, possa suonare quanto meno ironico.

E dell’ultimo Woody Allen vogliamo, appunto, parlare: diciamo a partire da Match Point (2005), film che, col suo cambio di tono non scontato verso il dramma venato di noir, ha destato nuovo interesse (anche dei non estimatori) verso il lavoro del regista, aprendo idealmente (anche) una fase significativamente più proiettata verso l’Europa (dopo la Londra di quello e di altri film, anche Barcellona, Parigi, Roma) che verso la “sua” New York.

Una fase eterogenea, fisiologicamente discontinua (dato anche il ritmo, ininterrotto fino al 2017, di un titolo all’anno), nel complesso non amata se non snobbata da più parti: eppure, ricchissima di brani interessanti (quanto sottovalutati) e soprattutto, come forse non è mai stato nel percorso in costante evoluzione dell’autore, compatta e coerente, nelle sue varietà interne, come un unico “libro” in grado di parlarci della complessa vecchiaia (che non significa decadimento) del suo artista.

Hugh Jackman, Scarlett Johansson e Woody Allen in Scoop (2006). Credits: Wikipedia.

Pessimismo e regolatezza

Pensando a questa ideale opera-fiume composta dalle fatiche alleniane dell’ultimo quindicennio, il primo paragone a venirci in mente (pur tra le varie, ovvie e abissali differenze) è proprio con un autore letterario, Giacomo Leopardi. Non certo perché si voglia in qualche modo confrontare la grandezza e l’importanza dell’uno con quella dell’altro nei rispettivi ambiti: ma perché i film dell’ultimo Allen ci paiono giusto i passi di un medesimo Zibaldone, o meglio ancora i dialoghi (ché le parole, come sempre in Allen, più che importanti sono fondamentali) di “operette morali” a misura del pensiero e della sensibilità del regista.

Come il grande poeta (e filosofo) recanatese, l’ultimo Allen ha trovato la sua via in un personale equilibrio tra il rigore formale, spinto fino al nitore classico, e un discorso antitetico ai valori e alle certezze del mondo (e del cinema) che fu.

Le “operette” filmiche di Woody Allen ci parlano (anch’esse) delle questioni più profonde e irrisolte dell’esistenza umana, attraverso dialettiche di punti di vista e prospettive più o meno straniate (i viaggi in altre epoche di Midnight in Paris, le finestre beffarde verso l’aldilà di Scoop, il gioco a incastri tra presente e passato in Blue Jasmine), che lasciano però (e comunque) trasparire con la chiarezza di un teorema la visione di fondo: un nichilismo che non ammette certezze se non quella dell’essenza fatua e fondamentalmente infelice della vita (sempre e comunque un’«esperienza piuttosto sinistra», per citare lo stesso Allen), e (quindi) della morte come sua meta ineluttabile.

La ruota delle illusioni (e del caso)

Owen Wilson e Rachel McAdams in Midnight in Paris (2011). Credits: Wikipedia

La natura (qualunque volto abbia) è “matrigna” anche per il regista: il quale è forse più indulgente dell’ultimo Leopardi verso il vizio (necessario) dell’umanità di aggrapparsi alle illusioni, ma sempre implacabilmente smascherate come tali, guai a scambiarle per nuove certezze.

Ci penserà il copione beffardo dell’esistenza (regolata dal caso) a smentire i vecchi e nuovi miti dei protagonisti: quello di mai esistite (se non nel desiderio di chi soffre il proprio presente) epoche d’oro (Midnight in Paris), di una presunta (e discutibile) agiatezza sociale (Blue Jasmine e tutti i capitoli a sfondo “crime” della fase), dell’amore nelle sue, comunque precarie, possibilità (Vicky Cristina Barcelona, Basta che funzioni, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni),delle vecchie fedi religiose ma anche di fin troppo sicure professioni di materialismo (Magic in the Moonlight), della politica.

Da rivalutare, in quest’ultimo caso, anche il bistrattato tentativo di serie tv con Amazon, Crisis in Six Scenes (2016), più (e forse troppo) simile a un film di due ore fratto sei, eppure divertente e intelligente nel suo farsi beffe tanto dei progressisti moderati e benestanti (il protagonista, più recente ruolo dell’Allen attore) quanto dei radicali le cui utopie si riducono agli ennesimi oggetti di vacuo consumo nei salotti borghesi (e la scelta della popstar Miley Cyrus per il ruolo della “rivoluzionaria” è tutt’altro che banale in questo senso).

L’ultimo Allen, come l’ultimo Leopardi, non crede (non ci ha mai creduto, in realtà) nelle «magnifiche sorti e progressive» del divenire storico. La sua è una morale antimoralistica, o se vogliamo una meta-morale: perché gli interrogativi della (e sulla) coscienza pesano sui personaggi come al tempo di Dostoevskij, ma al delitto non segue (più) il castigo dell’anima, semmai quello della fortuna anarchica, che premia e punisce senza una logica apparente.

Appigli (e delitti) nel caos

Jonathan Rhys Meyers in Match Point (2005). Credits: Ecodelcinema.

Da questo punto di vista, il miglior manifesto dell’Allen-pensiero per leggere gli ultimi film continua ad essere il capolavoro Crimini e misfatti (1989), perfetta anticipazione (e sintesi) della “doppia anima” che, da Match Point in poi, acquisirà in modo quasi sistematico il cinema alleniano: da un lato, l’indagine (meta)morale sulla scelta e sul caso condotta attraverso il rivelativo specchio deformante (o la freudiana rottura del cristallo) del delitto. Dall’altro, la commedia (amara) della vita nella vanità e incostanza dei suoi desideri e nella precarietà dei suoi sogni e legami, attraverso nuove e varie versioni del suo tradizionale, nevrotico protagonista, affidato sempre più spesso (e non casualmente) ad altri e disparati attori.

Nel primo caso, allora, il pur anti-ideologico Allen ci ha offerto alcuni dei più crudeli e lucidi ritratti di una borghesia il cui vuoto psicologico-culturale è colmato solo da un (distruttivo quanto velleitario) arrivismo sociale: dal Jonathan Rhys Meyers di Match Point ai fratelli Ewan McGregor e Colin Farrell (parimenti vani la cultura dell’uno e i tormenti religiosi dell’altro) di Sogni e delitti.

Nel secondo caso, invece, la (re)incarnazione più divertente ed efficace del fragile e disilluso personaggio alleniano (o simil-alleniano) l’ha offerta il Boris Yelinkoff (Larry David) di Basta che funzioni, titolo (in originale Whatever Works) che è la più trasparente espressione della risposta “positiva” (l’unica possibile) alla negatività del vivere, ovvero l’apertura disincantata ma sincera a tutti quei piccoli e grandi (comunque mai eterni) appigli che ci rendono l’esistenza più sopportabile.

Irrational Woody

È allora nel notevole (e anch’esso ingiustamente trascurato) Irrational Man che i due movimenti dell’ultimo Allen convergono di nuovo (dopo Crimini e misfatti), nella parabola del filosofo nichilista Abe (Joaquin Phoenix), che sceglie proprio il delitto come possibile appiglio, come estremo (e paradossalmente “morale”) “basta che funzioni” per dare una parvenza di senso al caos del suo cammino sulla Terra.

Ma che forse, come altri protagonisti maschili alleniani, è (comunque) svantaggiato nel suo intellettualismo rispetto alla controparte femminile, qui come altrove più forte (anche) di una maggiore disponibilità alla fatale e imprevedibile contraddittorietà della vita.

Insomma, pur tra inevitabili cali e passi falsi (To Rome with Love), l’autore newyorchese in questi anni ha saputo mettersi (e metterci) in discussione, dietro la composta riconoscibilità e coerenza (scambiata non da pochi per ripetitività) dei suoi ultimi lavori.

E persino in un capitolo più stanco e meno brillante come il recentissimo (troppo a lungo rimandato e atteso) Un giorno di pioggia a New York, certe variazioni sui temi sono tutt’altro che scontate, e anzi si fa ulteriormente raffinata la decostruzione (spinta fino alla frammentazione nelle diverse figure maschili) del personaggio simil- (o post-, o meta-) alleniano.

Un discorso meta-morale che, dunque, investe Allen stesso come personaggio in cui l’autore (chissà quanto) si riflette. Un autore che crede nel cinema anche (e soprattutto) come il suo personale “basta che funzioni” attraverso cui dissertare sul non-senso che ci permea e ci circonda. E speriamo che continui a crederci, ancora per un po’.

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1 commento

  1. […] E sul grande schermo questo film va irrinunciabilmente visto. Perché stavolta il viaggio del regista newyorchese nei suoi temi abituali (e nella bellezza delle città europee) è anche, e soprattutto, un viaggio nei capolavori del cinema che fu, da Federico Fellini a Luis Buñuel passando per Ingmar Bergman. Dove però la nostalgia non è fine a se stessa, ma funzionale ad aggiungere un tassello in più, e insieme una sintesi, alla riflessione di Allen sull’esistenza. […]

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