Stefano Landini arriva al cinema con il suo settimo lungometraggio: Stolen Moments, che offre uno sguardo sincero e originale sulla sfida di trasformare un sogno in realtà in un contesto socio-politico complesso e spesso ostile, attraverso il linguaggio del mockumentary. Da sempre legato alla musica, fondamentale per il suo cinema, Landini la rappresenta come uno strumento per raggiungere un futuro migliore da quello immaginato.
Abbiamo fatto qualche domanda al regista.
L’intervista
Quali sono le ispirazioni che hanno dato vita a Stolen Moments e perché hai scelto la strada del mockumentary?
Provengo dal mockumentary perché anni fa, con Federico Greco e Mauro Di Flaviano, realizzammo Stanley and Us, in cui tre ragazzi italiani inseguivano il loro mito, Stanley Kubrick, che non avrebbero mai incontrato.
L’ho sempre considerato un genere nuovo, e territorio di sperimentazione molto efficace, i titoli ormai sono tanti. Per quanto riguarda specificamente Stolen Moments, stavo realizzando Cocktail Bar, assieme al compianto Toni Lama: la storia del Music Inn, storico club di jazz degli anni Settanta. Ho pensato che trasportando la vicenda, che si svolgeva negli stessi anni, in un contesto diverso come il Mezzogiorno d’Italia, come si sarebbe detto all’epoca, sarebbero venute fuori molte cose inaspettate. E così è stato.
Quanto il riscatto sociale si lega al potere della musica?
Decisamente molto, basti pensare a Woodstock e ai grandi eventi in cui tutti i generi musicali, incluso il jazz, specie il free jazz che ne era la variante più intrisa di aspetti sociali.
Nel caso del jazz, free o meno, si assistette a uno strano fenomeno: il jazz doveva essere nero. Spesso i jazzisti bianchi venivano considerati diversamente. Ci furono in precedenza episodi di razzismo vero e proprio, come l’aggressione a Miles Davis proprio di fronte a uno dei club frequentati da ricchi bianchi con i manifesti che portavano il suo nome, ma più in generale il discorso sociale portato avanti dal jazz aveva sdoganato quella musica come principalmente nera, molto più che in altri generi. In un certo senso quindi il jazz è la musica più democratica in assoluto.
La tua passione per il jazz percorre gran parte del tuo cinema, da 7/8 – Sette ottavi del 2007 a Cocktail Bar – Storie Jazz di Roma, di note, di amori del 2018: cosa rappresenta per te a livello di espressione e libertà?
Il jazz è spesso costruito su degli standard precostituiti in cui le sue componenti, armonia, ritmo, melodia, lasciano spazio a una improvvisazione basata su regole ferree ma allo stesso tempo lasciano grande spazio alla creatività. Mi ha sempre affascinato in questo aspetto.
Costruire storie su cui realizzare dei film, diversi tra loro – documentari o di finzione – su questo universo, aderiva evidentemente a questa mia esigenza. Ho realizzato molti cortometraggi e documentari che avevano come tematiche altri argomenti, dall’Africa alla storia di una donna che scopre di avere un tumore, ma effettivamente il jazz è spesso presente nelle mie cose.