Un'immagine di Flee. Credits: I Wonder Pictures.
Un'immagine di Flee. Credits: I Wonder Pictures.

È nelle sale dal 10 marzo per I Wonder Pictures Flee, il film del danese Jonas Poher Rasmussen (premiato al Sundance, ad Annecy e agli EFA, tra gli altri), già entrato nella storia del cinema per essere il primo lungometraggio a gareggiare agli Oscar contemporaneamente nelle categorie animazione, documentario e film internazionale.

Ma il dato non ha solo valore di curiosità, e ci offre un indizio per cogliere la forza di questo lavoro, che sta in una poetica dell’incontro a livello sia formale che tematico. Tra il cinema del reale e la tecnica dei disegni animati, lontani solo nel luogo comune. Tra appartenenze nazionali e culturali, nella vicenda del protagonista, Amin, dal cui racconto emergono motivi, ferite e contraddizioni degli ultimi decenni di storia che abbiamo scritto.

Quei ricordi che ci riguardano

La didascalia iniziale ci avverte che i nomi di alcuni personaggi sono stati cambiati «per proteggere i membri del cast». Come scopriremo nel corso del film, infatti, c’è una parte della vita di Amin che per molto tempo non ha potuto essere svelata. Né nell’Afghanistan dove è nato, né nella Danimarca dove è tormentosamente approdato. Tra intervista e seduta di psicoterapia, Amin chiude gli occhi, ritrova e ricompone i pezzi della sua vera storia. Quella che pochissimi sapevano e ad ancora meno ha raccontato, complice il ricatto dello status di rifugiato nella parte privilegiata di mondo, che può rispedirti agli inferi con estrema facilità.

Nella Kabul del 1984, quando Amin era bambino e giocava a indossare i vestiti della sorella maggiore, le persone LGBT «non esistevano, non c’era neanche una parola per definirle». L’uomo che è oggi, invece, vive la relazione con il proprio compagno, tra i dilemmi del dover tenere insieme affetti, prospettive di studio e di carriera. Ma nel mezzo c’è la fuga dall’Afghanistan, quello del 1989 che sta cadendo in mano alle milizie islamiste, foraggiate dagli USA per destabilizzare il nemico sovietico. La storia individuale non è mai separabile da quella politica, ci ricorda la vicenda di Amin, il cui mondo è un segmento precario nella scacchiera delle grandi potenze che, ieri come oggi, si giocano il destino di popoli interi.

Un’immagine di Flee. Credits: I Wonder Pictures.

Ecco allora il viaggio tra speranza e disperazione, con soste e marce indietro, trafficanti brutali e poliziotti corrotti, container stipati e stive allagate. Le tappe, una Russia dove la globalizzazione post-URSS ha portato i McDonald’s mentre affama la popolazione, un palazzo abbandonato in Estonia circondato da filo spinato e un angolo finalmente acquistato nell’Olimpo occidentale. Il prezzo, (anche, soprattutto) la bugia sul reale destino di madre, sorelle e fratelli, per non perdere il privilegio di essere ospitato.

C’è tutta la Storia che qualcuno riteneva finita, nella singola storia di Amin. Ci sono i drammi, le ingiustizie, le alterità che non abbiamo saputo o voluto tenere insieme in unico quadro, quello di un mondo (ancora) tragicamente iniquo. Ci sono le (nostre) guerre in Medio-Oriente, l’Est-europa depredato (e mai democratizzato) dal capitalismo di fine millennio, i volti, corpi, esperienze che abbiamo silenziato, confinato, respinto. Quelle di chi voleva vivere liberamente la propria identità nella parte di mondo dove è almeno possibile, almeno per alcuni, per i “salvati”. Amin si è salvato, al prezzo di sommergere e disperdere una parte di sé.

Ridisegnare il reale

Tanto più in questo caso, allora, è la forma a farsi (parte della) sostanza di quanto narrato. L’animazione, applicata a un documentario che è anche racconto di formazione e memoriale di viaggio, dà ai ricordi la consistenza di sogni più veri della (apparente) realtà. E conferisce al racconto per immagini la delicatezza e insieme la durezza di una favola straniante. Contaminando l’oggettività di soggettività (e viceversa), il realismo di espressionismo, nello scarto tra il disegno e i filmati di repertorio o nel bianco e nero sporco che segna i passaggi più difficili e dolorosi da rievocare.

Un’immagine di Flee. Credits: I Wonder Pictures.

Così il film espande le sue possibilità facendosi riscrittura lirica del documentato, paesaggio dell’io nel perenne e problematico confronto col contesto storico-sociale. Tracciando, fra i movimenti di un treno, il verde di una casa di campagna e i suoni di un vecchio walkman, le coordinate di un’elaborazione che è riappropriazione del proprio vissuto, per il protagonista. E, per noi, esercizio di apertura alla complessità e polifonia di un mondo che è famiglia umana da (ri)unire.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.