I protagonisti de Il capofamiglia. Credits: Wanted.

Nel buio, urla umane e il crepitare delle fiamme. Poi, lo vediamo: un uomo si è dato fuoco, sullo sfondo desolato di una fabbrica. È l’inizio de Il capofamiglia (Feathers) di Omar El Zohairy, Miglior film alla Semaine de la Critique di Cannes, poi Gran Premio della Giuria a Torino 2021 e nelle nostre sale dal 16 marzo per Wanted. Siamo in un Paese che potrebbe essere l’Egitto, ma le coordinate spazio-temporali sembrano parzialmente sospese, al netto della concretezza quasi brutale di certe immagini. Che, a loro volta, sono la materia di una rappresentazione grottesca sulla quotidianità di un nucleo familiare. Dove un fatto inaspettato scardina equilibri e gerarchie, senza possibilità di tornare indietro.

Miseria e assurdo

 «Attraverso questa parabola», ha dichiarato il regista, «ho voluto ritrarre uno spaccato della vita difficile che conduce una normale famiglia egiziana». Composta da cinque personaggi, tutti emblematicamente senza nome, perché, un po’ come nel Teorema pasoliniano, a identificarli tra realtà e allegoria è il loro ruolo sociale. Un marito (Mohamed Abd El Hady) impiegato nella fabbrica vista all’inizio. Una moglie (Demyana Nassar) che trascorre le giornate ad occuparsi dei tre bambini (di cui un neonato) e di una casa dalle mura logore, dove entrano i fumi dello stabilimento e il principale comfort è una vecchia televisione.

Demyana Nassar ne Il capofamiglia. Credits: Wanted.

Si parla poco, pochissimo, nel film e nella casa del Capofamiglia. Lui ordina alla donna cosa vorrà trovare in tavola, compra una fontanella elettrica a dir poco kitsch per «dare un tocco di classe alla casa» e condivide con la prole il proposito di trasferirsi, un giorno, in una villa con piscina e tavolo da biliardo. Improbabile, viste le difficoltà a pagare l’affitto della stessa, modesta abitazione in cui si trovano ora. E dove la donna lavora remissiva e taciturna. Almeno, sino alla festa di compleanno di uno dei bambini, dove lo show riuscito male di un mago trasforma il padre padrone in un pollo. Irreversibilmente.

L’improbabile prestigiatore fa perdere le sue tracce, il pennuto sembra davvero ciò che rimane dell’uomo, prende posto sul suo letto e addirittura posa le zampe dentro le sue scarpe ormai vuote. L’evento inspiegabile («demoniaco», dice qualche parente) si è abbattuto sulla routine della famiglia. Di chi c’era prima resta, significativamente, solo l’orologio. Il cimelio di un tempo rotto, ma non immobile, soprattutto per la (ex) moglie, sola con i debiti e le conseguenze di un caso non incasellabile in alcuna logica.

Il sacrificio del patriarca

Quello della protagonista, allora, diventa un percorso di emancipazione anomalo, antididascalico, a partire dai ripetuti e falliti tentativi di restaurare il principio di protezione-oppressione maschile. Risibili e vani, infatti, i rimedi proposti dalla cultura popolare per invertire il trucco magico. Così come il parente benefattore si rivela per la donna solo un goffo e invasivo corteggiatore, con un’avance in macchina interrotta dal bisogno dell’uomo di urinare e culminata nel rifiuto di lei, che torna indietro solo per riprendersi la preziosa tv.

Un’immagine de Il capofamiglia. Credits: Wanted.

La tortuosa ricerca di lavoro della nuova capofamiglia diventa quindi un altro passaggio chiave per la tumulazione del suo vecchio modo di vivere, a contatto con le differenze di classe (facendo le pulizie tra i marmi di una casa di privilegiati) e le regole di una società misogina. Lo sguardo del regista la segue tra lunghe inquadrature fisse e distanziate, facendoci  spettatori straniati di un palco tragicomico che ci mette beffardamente a disagio.

E pare proprio un ultimo, crudele sberleffo la parte conclusiva, che per un attimo sembra aprire alla possibilità di un ristabilimento dell’ordine di partenza, solo per compierne sino in fondo la degradazione. Facendo dell’ex moglie-madre sottomessa l’autrice di un gesto che sancisce senza facili catarsi la nuova condizione interna al microcosmo familiare. Suggerendoci che, forse, quel duro ed enigmatico avvio tra grida e fiamme alludeva a una necessaria immolazione.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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