La Ricotta, Pasolini

La bellezza dei colori accresce la suggestione dello schermo cinematografico. Lo spettatore è chiamato inconsciamente ad una partecipazione diretta alla Passione, ad un’identificazione con le dolenti figure del contorno. Tutto si compone in una ieratica immobilità e già l’animo si dispone al discreto diffondersi di una musica sacra quando improvvisamente, come una staffilata sulle pie donne, sulla croce, sui santi, sul volto straziato del Cristo, irrompe blasfema e saltellante la musica di un twist.

La ricotta, Pier Paolo Pasolini, 1963
La ricotta, Pier Paolo Pasolini, 1963

Tomaso Subini così riporta nel suo meraviglioso saggio le parole del PM Di Gennaro, a capo del processo per vilipendio contro la religione di Stato istruito contro Pasolini e la sua opera. Parole che denotano una sensibilità acuta da parte di un estraneo al mestiere che, prima degli analisti e dei critici, avvia il processo di scomposizione e interpretazione del film, portando addirittura una moviola (!) nelle aule processuali.

La ricotta è il mediometraggio pasoliniano di RoGoPaG, film collettaneo del 1963 che prende il nome dalle iniziali dei registi che vi partecipano: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. Emerge subito dal corpo del film, già prima dell’uscita, a causa delle vicende processuali, ma anche – ed è proprio da qui che deriveranno molti dei guai giudiziari – a causa del suo presentarsi come una personalissima dichiarazione di intenti.

È attraverso il tema del sacro, parte fondante del bagaglio espressivo dell’autore, che questa riflessione sulla sua figura di intellettuale, sul crollo – già avvenuto in letteratura – della poetica, e sulla fattibilità di un “poema d’azione cinematografico” (Francesco Zucconi, 2014), trova la sua stratificata rappresentazione.

Dopo Accattone e Mamma Roma, ci troviamo davanti al primo film dell’autore dove i riferimenti, le citazioni e le influenze creano un’opera complessa in cui lo spettatore può ritrovarsi privo di appigli certi. Ma anche questo diventa sintomo del configurarsi del corpo del film come sito di una crisi irreversibile, che ha a che vedere con la possibilità stessa dello sguardo autoriale, intellettuale, sul mondo, caro a Pasolini, del sottoproletariato urbano.

IL SOTTOPROLETARIO E IL REGISTA

Nei sobborghi di Roma, una troupe cinematografica, con al comando un pingue regista-esteta (Orson Welles), sta girando un film sulla passione di Cristo. Tra le comparse, figura, per la parte del ladrone buono, il sottoproletario Stracci (Mario Cipriani), il cui agire è condizionato da una fame (atavica) che lo porterà a un’indigestione dalle conseguenze fatali.

Stracci (Mario Cipriani) - La ricotta, 1963
Stracci (Mario Cipriani) – La ricotta, 1963

Come accennavo, si tematizza la non più possibile comunicazione con e messa in scena di un mondo sottoproletario da parte di uno sguardo intellettuale. La ricotta si configura come regione di passaggio fondamentale nella produzione pasoliniana. È il momento dell’autoriflessività, in cui l’autore mette in discussione la fattibilità di una rappresentazione che fino ai due film precedenti sembrava ancora attuabile. Questo ben prima che Pasolini cominci ad avvertire una problematica mutazione antropologica connessa al consolidarsi della società dei consumi.

Qui, la rappresentazione realistica del sottoproletariato viene scalzata, a favore di un processo di opposizioni e antitesi a molteplici livelli della rappresentazione, che rivelano le ipocrisie della borghesia e, appunto, della società dei consumi – e della società dello spettacolo nello specifico. L’animo dell’autore appare scisso tra Stracci, rappresentante ultimo di coloro che vivono ai margini della società, e il regista del film, interpretato da Welles, vero e proprio alter ego del regista, da cui egli si distanzia ma in cui al contempo si riconosce. Da una parte avviene un avvicinamento regressivo di accattoniana memoria, dall’altra uno specchiamento autocritico, un’identificazione incontrovertibile.

Stracci e il regista (in forma continuamente contraddittoria) sono le due facce dell’opposizione alla società dei consumi. Prendendo in prestito le parole di Subini: 

Solo in due modi è dunque possibile, per Pasolini, opporsi al Capitale: quello di Stracci e quello suo, rappresentato nel film dal personaggio del regista, espressione di un aristocraticismo culturale che esalta la forma oscura vista come resistenza al dominio omologante dei mass media, come ostacolo al consumo.

È proprio nell’inserimento della figura del regista, elemento inedito nel cinema di Pasolini, che una crepa si apre nel suo cinema. Una crepa da cui uscirà tutta la produzione successiva, non più cullata dalla rassicurante, per citare Walter Siti, «complementarità tra Poeta e umili», che trovava il suo equilibrio nel «riconoscimento delle rispettive identità» e nell’«identificazione di un comune nemico».

Noi seguiamo le vicende del povero Stracci, che corre da una parte all’altra del set, dà il suo pranzo alla famiglia e si danna per procurarsi qualcosa da mangiare per sé, in un susseguirsi di scene comiche che porteranno tuttavia all’abbuffata mortale.

Vediamo, invece, il regista del film nel film dare ordini a destra e a manca, preso in un solipsistico autocompiacimento della sua arte, stando seduto sulla sua sedia, formando quasi un tutt’uno con essa. Lo vediamo ‘discutere’ con un giornalista arrivato sul set, ma più che uno scambio è un’invettiva di taglio pasoliniano contro l’uomo medio.

Per tornare alle contraddizioni: acquiescente nei riguardi dei borghesissimi produttori del film – il cui arrivo sul set viene connotato come una vera e propria invasione della periferia romana, con tanto di effetto di tuono – solo alla fine mostrerà di vedere Stracci. Ed è il momento in cui la prospettiva, per la prima volta, diventa quella del sottoproletario, in una soggettiva dalla croce che lascia spiazzati per il suo provenire da un corpo ormai morto.

OPPOSIZIONI SIGNIFICANTI

Le aspettative vengono disattese, in modo continuo e programmatico e attraverso contrapposizioni dense di significato, e da ciò lo spettatore non può fare a meno di rimanere colpito, disorientato e affascinato. La musica sacrale che ci si aspetta accompagni i tableaux vivant che mettono in scena la deposizione e il trasporto di Cristo al sepolcro è sostituita dal twist. Sono le azioni di Stracci ad essere accompagnate da una musica seria che ne amplifica la dignità.

Cristo cade, gli astanti ridono, membri della troupe entrano nell’inquadratura: il basso, il profano e il triviale fanno insistentemente breccia nella supposta e cercata sacralità della rappresentazione del film nel film. I simboli cristiani, la corona, le croci, vengono vertiginosamente ‘abbassati’ dalle grida belluine che ne accompagnano la richiesta sul set. Nella serie di primi piani delle voci che invocano queste insegne, vera e propria galleria – quasi neorealistica – di volti, si arriva addirittura all’abbaiare di un cane, ad esasperare un messaggio già ben chiaro.

La ricotta, Pasolini, 1963
La ricotta, Pasolini, 1963

La stessa differente modalità di inquadratura di Stracci e Welles dà la misura di un – qui ancora tentato – avvicinamento immersivo al sottoproletariato, a cui corrisponde un’ambigua formula di distanziamento-adesione dalla figura del regista.

L’opposizione più evidente è però quella determinata dall’alternanza di bianco e nero e colore. Le due inquadrature iniziali e l’ultima sono una sorta di cornice emblematica a colori che già esplicita le tematiche e gli intenti dominanti dell’opera. I due tableaux vivant escono dal regime in bianco e nero del film per sfociare nel colorismo delle fonti pittoriche che citano i quadri di Rosso Fiorentino e Pontormo, inquieti artisti del Manierismo italiano. Scelta che a sua volta getta ulteriore luce sulla crisi in atto in Pasolini.

È dal contrasto che nasce il senso e, come dichiara Pasolini stesso in uno dei cartelli che precedono l’inizio del mediometraggio, attraverso le parole del vangelo secondo Marco, “se qualcuno ha orecchi per intendere, intenda”.

Credo che Pasolini, molto più di altri registi, per essere pienamente apprezzato debba essere capito. E in veste di appassionata e studiosa del cinema, l’incontro con questo autore è ogni volta una scoperta. È il disvelamento di aspetti prima ignorati, l’attraversamento, strato dopo strato, di una complessità mai fine a se stessa. La grande forza della sua opera è che non può lasciare indifferenti, nel bene o nel male.

La ricotta riesce con il suo coraggio espressivo a dare il via a una provocatoria opera di smantellamento, sovvertimento e messa in crisi cinematografica della morale borghese e bigotta, in una presa di posizione temeraria e rivoluzionaria che non cessa mai di risultare preziosa e necessaria, ieri come oggi.

Continua a seguire la giornata dedicata a Pasolini, su FRAMED Magazine.

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