Mignonnes, Maïmouna Doucouré (2020)

Una riflessione su MignonnesCuties e un invito a non giudicare troppo in fretta.

Ho deciso di guardare Mignonnes proprio quando ho scoperto il grande scandalo che vi è sorto intorno e l’ingente perdita (9 miliardi in Borsa) provocata a Netflix. La curiosità è cresciuta quando ho scoperto che, in realtà, quando è stato presentato al Sundance Film Festival è stato accolto per quel che è: un film-denuncia dal duro spirito francese.

Dal Sundance a Netflix, un salto di pubblico troppo ampio

Nell’Olimpo del cinema indipendente, disperso nel cuore americano dello Utah, nessuno ha avuto a che ridire, perché Mignonnes era nel giusto contesto, presentato a un pubblico in grado di collocarlo in maniera opportuna. Dopo il Sundance sarebbe dovuto passare direttamente alle sale francesi: di nuovo, per il pubblico che conosce la propria realtà rappresentata, quella delle banlieues e della durezza della vita di periferia parigina. Il problema nasce qui. Netflix interviene soffiando l’affare ai distributori francesi, compra i diritti internazionali del film, sceglie un titolo inglese – Cuties – e una locandina quanto meno discutibile.

Apriti cielo. Cuties improvvisamente diventa un film pedopornografico e non importa che l’intento della regista fosse tutt’altro. Il pubblico si accontenta di una sola immagine per giudicare l’intero film. E anche quando inizia a guardarlo lo fa con il preciso intento di ritrovarvi i motivi di indignazione che in primo luogo hanno istigato la visione.

La forza e l’intento di un’opera prima impegnata

Bene, allora facciamo tutti un passo indietro. Capiamo cos’è veramente il film di Maïmouna Doucouré. Innanzitutto è un’opera prima, realizzata dopo un cortometraggio di fama internazionale, Maman(s). E non smetterò mai di ripeterlo, le opere prime sono sempre le opere più forti, più idealizzate e impegnate per ogni regista che vuole trasmettere dei messaggi reali attraverso i suoi film. Sono dichiarazioni sociali e politiche, per certi versi, ancora non annacquate dal sistema produttivo.

È dunque un film indipendente realizzato nella periferia parigina (la banlieue) e nello specifico in un quartiere a maggioranza senegalese. Il che ci dà la possibilità di ascoltare, in versione originale ovviamente, sia la lingua francese sia la lingua wolof e di notare molti dettagli culturali che sono essenziali nel film.

Amy (Fathia Youssouf) in Mignonnes (2020) - CREDITS: IMDB.com
Amy (Fathia Youssouf) in Mignonnes (2020) – CREDITS: IMDB.com

Amy, il twerking e la periferia parigina

La storia di Amintana, o semplicemente Amy, è infatti principalmente una storia di ribellione, di frattura dolorosa tra l’infanzia e l’adolescenza. Amy scopre che il padre, musulmano come tutta la comunità e poligamo, è tornato in Senegal per conoscere la seconda moglie. La camera vuota accanto alla stanza di Amy e a quella della madre e dei fratelli diventerà dunque il nuovo nido d’amore per il padre e una nuova giovane donna. Il fantasma di questa nuova figura femminile che le ruba il padre inizia da qui a infestare la mente di Amy per poi in effetti concretizzarsi in un significativo incontro alla fine del film. È importante capire che tutto ciò che Amy fa è mosso da questo trauma ed è motivato in primo luogo dal rifiuto, tipicamente infantile e adolescenziale, delle regole imposte, delle tradizioni e del dovere.

La protagonista si avvicina ad Angelica e alle altre ragazzine perché in loro vede la concretizzazione di questa sua ribellione. Non sono le Mignonnes a deviare il suo comportamento, però! È Amy stessa a usarle in un certo senso come strumento per ottenere ciò che vuole. Per quanto siano bulle e scapestrate, le Mignonnes – così si fanno chiamare come crew di ballo – non hanno il controllo su Amy, anzi a un certo punto ne sono a loro volta spaventate e l’allontanano.

La prerogativa del personaggio di Amy è proprio quella di essere fuori controllo, risucchiata da un vortice contro cui né lei né lo spettatore può far nulla. E questo ci porta all’aspetto più spinoso del film, cioè il modo in cui Amy attraversa questa sua crisi, con la scoperta della sessualità, tuttavia chiaramente immatura e precoce.

La questione dell’adultizzazione

Una scena di Mignonnes (2020) - CREDITS: IMDB.com
Una scena di Mignonnes (2020) – CREDITS: IMDB.com

La prima cosa da dire, per fugare ogni dubbio, è che in Mignonnes gli adulti non sono presi in causa direttamente. Spesso anzi sono allibiti, imbarazzati o persino disgustati dai comportamenti delle Mignonnes. È ovvio che il film non allude alla pedofilia, è sciocco pensarlo e non sarebbe comunque legale. Al contrario, analizza e rappresenta le conseguenze deleterie dell’adultizzazione. L’intento di Doucouré è quello di denunciare alcuni comportamenti sempre più frequenti nei pre-adolescenti, ma fra coetanei, all’interno del loro piccolo mondo.

È ingenuo pensare che in prima/seconda media i ragazzini e le ragazzine non parlino di sesso. È esattamente l’età in cui ne sentono parlare le prime volte e ne scoprono il significato. Da qui a pensare che lo pratichino passa una sola cosa: l’educazione sessuale, che evidentemente manca ed è stata sostituita dai social network e dai contenuti multimediali.

Amy scopre il twerking su internet e impara a ballarlo imitando le ragazze più grandi che caricano i video su Youtube o sui loro profili social. È lei stessa a insegnarlo a sua volta alle altre Mignonnes, dopo essersi esercitata segretamente a casa per giorni. Indubbiamente è un’immagine che disturba, ma è esattamente questo lo scopo. Deve creare disagio e far comprendere al pubblico la tossicità di certi modelli femminili che vengono imposti con più o meno consapevolezza alle donne, già dall’infanzia.

I bambini ci guardano

Così diceva De Sica nel titolo del suo celebre film. I bambini ci guardano e ci imitano, vedono i nostri selfie, vedono la leggerezza con cui usiamo i social network e la facilità con cui inseguiamo i likes e gli influencer. Quello che Doucouré vuole dire, in fondo, è che su TikTok avviene ogni giorno quello che nel film ci rifiutiamo di considerare una realtà di fatto. Non si tratta di stabilire se raccontarlo in un film sia giusto o sbagliato. Si tratta di smetterla di puntare il dito contro la libertà di espressione dell’arte e del cinema e puntarlo, al massimo, contro noi stessi. Non possiamo prendercela con una regista la cui unica colpa è aver osservato e aver “documentato”. Tra l’altro lo ha fatto costruendo un ambiente protetto, con la presenza dei genitori delle attrici e degli psicologi sul set.

Rimane il fatto che Mignonnes non è un film per tutti e non è giusto che lo sia, nonostante Netlfix si prenda spesso l’onere di distribuire film difficili da collocare altrove. È un film che ferisce e che colpisce il pubblico facendo leva su forti tabù. E poi è un film francese, di quelli che le cose non le mandano a dire: senza eufemismi, senza perifrasi, senza gentilezze per il pubblico. Avete mai visto L’odio di Kassovitz (1995) o I miserabili di Ladj Ly (2019)? Ecco. C’è una crudezza e una crudeltà delle banlieues che non potrebbe essere raccontata diversamente, perderebbe il senso. E in questo caso il senso è tutto.

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