La resistenza dei Chicago 7

Un Paese diviso all’alba delle elezioni: i Chicago 7 e gli USA di oggi
Il processo ai Chicago 7, per citare una battuta del film stesso, è una gigantesca mossa politica per convincere i cittadini statunitensi a registrarsi alle liste elettorali. La pressione delle elezioni presidenziali inizia a farsi sentire, a poche settimane dal voto, anche nei prodotti culturali di questo autunno di mutamenti. E tra centinaia di VIP che su Instagram continuano da mesi a ripetere Register to vote, ecco che all’improvviso appare il messaggio più potente e più nascosto di tutti. Come si smembra o si rovescia un governo in modo pacifico? chiede l’avvocato Kunstler (Mark Rylance). In questo Paese (USA) viene fatto ogni quattro anni, risponde Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen). E tutto il senso del film è racchiuso in queste due sole battute.
I Chicago Seven: cenni storici sui riot e sul processo
Nell’agosto 1968 Chicago ospita la Convention del Partito Democratico, tappa essenziale per la corsa alla Presidenza. In città è prevista una folla oceanica di contestatori, per lo più pacifisti, che intendono manifestare contro la guerra in Vietnam. Tra questi presenziano chiaramente anche i rappresentanti di: SDS (Students for a Democratic Society), Yippies (Youth International Party), Mobe (Mobilization to End the War in Vietnam) e Black Panther Party. Rispettivamente sono anche gli (otto, e poi sette) imputati del processo: Tom Hayden, Rennie Davis, Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinger, Bobby Seale. A cui si aggiungono gli indipendenti Lee Weiner e John Froines.

Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II) al tempo era il Presidente Nazionale del Black Panther Party. Rimase a Chicago il tempo di un discorso sul palco, ma fu ugualmente accusato di cospirazione e associazione a delinquere insieme agli altri. L’accusa faceva infatti leva sul fatto che queste diverse associazioni, appartenenti in diversa misura all’estrema sinistra statunitense, avessero premeditato insieme l’attacco alla Guardia Nazionale, infrangendo così una legge federale. In realtà arrivarono a Chicago in maniera indipendente tra loro. Comunque, tornando a Bobby Seale, lui fu l’unico a non avere un rappresentante legale in aula. Dopo molteplici tentativi di evidenziare il mancato rispetto dei suoi diritti costituzionali, fu legato e imbavagliato in aula per ordine del giudice. Questo vergognoso episodio portò chiaramente all’annullamento del suo processo. Da otto imputati rimasero quindi i celebri Sette.
Oltraggio alla Corte o Corte oltraggiosa?
Il processo ai Chicago 7 è un procedural drama, cioè un film di genere drammatico ambientato nel corso di un processo. L’argomento è serio, grave e soprattutto molto attuale, perché la violenza della polizia non inizia né finisce negli anni Sessanta. La peculiarità è che non è affatto un film solenne. Storicamente, infatti, durante questo processo tutti gli imputati (anche Bobby Seale) e persino l’avvocato dei Seven, Kunstler, furono accusati di oltraggio alla Corte. Kunstler addirittura ventiquattro volte in totale.
Aaron Sorkin cerca di riprodurre fedelmente quell’atteggiamento di sfida e resistenza che gli attivisti ebbero nei confronti di un Giudice affatto imparziale e in seguito definito inqualificabile. Parlavano anche quando non interpellati, interrompevano l’accusa e il Giudice stesso e lo facevano come forma di protesta nei confronti di un processo fallato sin dall’inizio. Tutto questo, sceneggiato a dovere per il cinema, naturalmente strappa più di una risata ma sempre nella piena consapevolezza che si tratta di una ridicolizzazione voluta dell’autorità e delle istituzioni di quel contesto.

La scelta di Sacha Baron Cohen nel ruolo di Abbie Hoffman è semplicemente perfetta in questo senso. E non solo perché il suo nuovo Borat anti-Trump è di prossima uscita appena prima delle grandi elezioni. Baron Cohen ha quel volto perfetto, apparentemente idiota, che nasconde invece le argomentazioni maggiori, più potenti e più intelligenti. Si presenta come l’hippie strafatto persino in tribunale, eppure la lucidità delle sue idee e dei suoi ideali è incontrovertibile. E lo dimostra sempre di più nel corso del film.
Il suo personaggio si scontra ideologicamente e fisicamente più volte con l’altra faccia della sinistra bianca statunitense, Tom Hayden (Eddie Redmayne). È quest’ultimo che sembra catalizzare su di sé tutta la drammaticità del film. Salvo poi accorgersi che tutti i personaggi hanno il loro momento di gloria, perché si tratta di un film straordinariamente corale, un’utopia in cui tutti hanno modo di esprimere le loro diversissime e radicali opinioni. Per renderlo possibile, Sorkin sceglie chiaramente dei volti altrettanto forti e riconoscibili, puntando su un cast di stelle (uno fra tutti, oltre i già citati, Michael Keaton).
Una lunga genesi
Il processo ai Chicago 7 arriva in un momento particolare della storia statunitense, in tempo per chiudere la maratona elettorale più pesante degli ultimi anni. Eppure non è un film pensato con gli occhi di oggi. Già nel 2006 Steven Spielberg voleva dirigere un film sui Chicago Seven, commissionando la sceneggiatura a Sorkin.
L’intenzione era quella di farlo uscire in corrispondenza di altre presidenziali fondamentali, quelle del 2008 (che videro Obama vincitore). L’idea fu ripresa e abbandonata più volte fino al caos delle elezioni del 2016, quando Spielberg (rimasto nella produzione) pensò che i tempi erano diversi e più maturi finalmente per una storia del genere. La componente elettorale e politica, in senso lato e nobile, è quindi effettivamente il filo rosso che collega gli sviluppi di questo progetto negli ultimi dodici anni (e negli ultimi tre quadrienni elettorali).
Il processo ai Chicago è disponibile su Netflix a partire dal 16 ottobre. Continua a seguire FRAMED anche su Facebook e Instagram per contenuti simili.
Classe 1993, sono praticamente cresciuta tra Il Principe di Bel Air e le Gilmore Girls e, mentre sognavo di essere fresh come Will Smith, sono sempre stata più una timida Rory con il naso sempre fra i libri. La letteratura è il mio primo amore e il cinema quello eterno, ma la serialità televisiva è la mia ossessione. Con due lauree umanistiche, bistrattate da tutti ma a me molto care, ho imparato a reinterpretare i prodotti della nostra cultura e a spezzarne la centralità dominante attraverso gli strumenti forniti dai Cultural Studies. Tra questi, solo per dirne alcuni, rientrano gli studi post-coloniali, gli studi femministi e quelli etnografici.
[…] avanti in prima persona contro Donald Trump sia con questo film sia con lo splendido monologo ne Il processo ai Chicago 7. Con due personaggi estremamente diversi cerca cioè di raggiungere il più ampio pubblico […]
[…] Il processo ai Chicago 7 – Aaron Sorkin […]