Scritto e diretto da Parker Finn, Smile è il lungometraggio di esordio del regista, che, partendo dal suo corto Laura Hasn’t Slept (2020), espande la narrazione usando Laura e i suoi traumi come punto di partenza della nuova storia.
Seguiamo le vicende della dottoressa Rose Cotter, terapeuta all’interno di una struttura ospedaliera, che si ritrova a dover dare una prima assistenza a Laura, una dottoranda che ha assistito al suicidio di un suo professore e che ora sembra non riuscire a liberarsi di strane presenze che vede solo lei. SPOILER Quando Rose si trova a testimoniare il suicidio di Laura, immobilizzata dallo shock, un vecchio trauma torna gradualmente in superficie, e tocca a lei sperimentare terrificanti visioni ossessive, fatte di sorrisi innaturali e perturbanti.
I personaggi
Nei panni di Laura torna Caitlin Stasey, in quella che è la scena migliore del film, prima dei titoli di testa, che dà la misura di quanto Smile ci riserva. Purtroppo il suo personaggio ha vita breve (nonostante torni ripetutamente sotto altra forma): Rose è interpretata da Sosie Bacon (figlia di Kevin Bacon e Kyra Sedgwick), e regge adeguatamente il ruolo, anche se circondata da personaggi che sfociano nel macchiettismo fastidioso. Il suo fidanzato (interpretato da Jessie T. Usher, A-Train di The Boys) è odioso per quanto poco comprensivo e premuroso nei suoi confronti, in un innaturale susseguirsi di reazioni e sentimenti che quasi ci porta a chiederci se ce la racconti giusta. La psicologa è la parodia della freudiana altolocata; la sorella e il marito sembrano usciti da Modern Family.
Qualcosa sembra essere andato storto nella costruzione di ciò che sta attorno alla vicenda, ma soprattutto nella definizione del tono complessivo del film.
Citare non è abbastanza
È evidente, quasi da ogni inquadratura, che Parker Finn conosca e adori il cinema di Ari Aster. Il regista newyorkese si è affermato come uno dei nomi più autorevoli dell’horror americano contemporaneo (è ormai celebre la triade Peele-Eggers-Aster), forte di uno stile narrativo e compositivo riconoscibilissimo. Le tematiche legate alla famiglia e al trauma del lutto hanno rappresentato il fil rouge tra Hereditary e Midsommar, e le ritroviamo in Smile, come spinta propulsiva dell’orrore.
Ma il trauma personale rimane solo caratterizzazione della protagonista, e non fa il passo ulteriore diventando materia primaria della narrazione horror: concentrandosi sul “piccolo” (e quindi evitando di usare il gioco della “catena” à la It Follows) il film avrebbe guadagnato in inquietudine intimista.
Ma l’amore per Aster emerge prepotentemente soprattutto a livello registico. Le inquadrature fisse su un lentissimo avvicinarsi o allontanarsi, cifra del suo cinema, tornano qui con una tale sovrabbondanza da risultare fastidiose. Sembra quasi che ogni momento della narrazione debba essere ripreso con questa tecnica: ma l’eccesso di uso rischia sempre di svuotare di senso comunicativo il mezzo che stiamo impiegando.
Più volte Parker Finn impiega il ribaltamento della macchina da presa che aveva segnato l’ingresso di Dani e gli altri a Hårga in Midsommar. Se lì immortalava l’accesso ad un altro mondo in cui usi e abitudini familiari non rappresentavano più un appiglio sicuro e i rapporti interpersonali si sarebbero trasformati in modo decisivo e irreversibile, qui non ha – in nessuno dei momenti in cui viene usato – alcun significato, alcun intento.
E le citazioni vuote sono quanto di peggio si possa vedere in un’opera. Perché gridando “avete visto cosa vi ho messo? Avete capito da dove l’ho preso?” hanno l’effetto di distaccare quanto stiamo vedendo da qualunque pretesa di genuinità, dandoci la sensazione che il fine ultimo dell’autore fosse quello di innalzare il proprio lavoro per mezzo di meriti altrui. Riferimenti riciclati in modo superficiale per vendersi come prodotto di qualità, appartenente a un ben definito filone di elevated horror che si rivolge a un pubblico più di nicchia ed esigente.
L’incoerenza del tono in Smile
Per giunta tutto ciò convive con un uso inverosimile di jumpscare, che ascrivono Smile a ben altra tradizione. Jumpscare legati soprattutto a suoni improvvisi, reiterati fino allo svenimento. (Il suono è protagonista assoluto anche di numerosissimi stacchi di montaggio: un rumore che raggiunge un suo apice assordante in un’inquadratura diventa improvviso silenzio nella successiva o si trasforma in altro suono simile o complementare.) O jumpscare talmente annunciati da perdere il loro unico potere fisiologico di spavento.
Mettendo in conto che il film dura comunque troppo, proprio sul finale cominciava a essere interessante grazie a un’inaspettata svolta grottesca dove la fisicità della minaccia si faceva più preponderante, facendo intravedere un film che avrebbe potuto essere e invece non è stato.
È per questo che anche i tentativi di “horror alto” risultano vuoti: non sono sostenuti da alcun reale intento, e lasciano il tempo che trovano in un continuo mutare della natura della narrazione, che non si capisce bene a chi volesse rivolgersi.
Smile è in sala da oggi 29 settembre, qui il trailer:
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