Hillbilly è una parola bloccata nel passato, dice Brian, protagonista del documentario di Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe. Ed è quasi un controsenso, aggiunge, considerando invece che il Kentucky in cui vivono gli hillbillies è la terra del futuro, secondo l’etimologia irochese del suo nome.
È una parola strana, colma al tempo stesso di disprezzo e orgoglio, dipende da chi la usa. Per chiunque sia estraneo alle alture del Kentucky orientale è un insulto, equivalente dal punto di vista lessicale al nostro montanaro, provinciale. Ma pregno di molti sottintesi come ignorante, violento, povero, razzista, incestuoso. Chiuso al resto resto del mondo, diffidente nei confronti della modernità. Ed è tutto vero, dice Brian, ma uno stereotipo è solo una parte cristallizzata di una verità più grande e complessa.
Quindi chi sono gli hillbillies, visti con i loro stessi occhi? Chi rivendica questa parola, riconoscendosi in essa, celebra con orgoglio l’appartenenza a una comunità autonoma e autosufficiente. In grado, cioè, di resistere alla modernizzazione e alle logiche (consumistiche e sociali) attuali negli USA. Lo spiega molto bene Brian nella bellissima sequenza intorno al fuoco (immagine qui sotto), quando improvvisa una lezione di vita per i piccoli della famiglia. Si definisce l’ultimo – the last – Hillbilly e quindi l’ultimo bambino libero d’America. Libero perché non dominato dagli oggetti che possiede.
Se guardiamo The Last Hillbilly con distacco, con gli occhi cioè dell’estraneo, non possiamo che vedere l’aspetto retrogrado e spaventoso di questa realtà. Che poi è la stessa realtà, la stessa anima, che ha dato spazio a Donald Trump. Ossia uno stralcio di America che un tempo aveva una forte identità, legata a una precisa funzione nel sistema economico: le miniere di carbone. E che adesso non sa ricollocarsi in un mondo che ha fatto enormi passi in altre direzioni.
Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe non ci chiedono però di guardare con distacco, anzi ci chiedono uno sforzo apparentemente maggiore, perché il loro documentario si avvicina più alla poesia che alla prosa. Evoca sensazioni, accosta immagini e significati, lasciando a noi spettatori la parafrasi finale. Riserva però a Brian il vero e proprio canto del cigno di una comunità destinata, forse, a scomparire. È lui che ci accompagna, dentro e fuori campo, alla scoperta di questo mondo.
The Last Hillbilly – Stile e struttura
The Last Hillbilly si compone di tre “capitoli”, ognuno rimarcato da un titolo: Under the family tree, Waste Land e The Land of Tomorrow. In più ha un prologo e un epilogo, due brevi filmati in formato completamente diverso. Il primo rappresenta la morte della comunità attraverso la dolorosa morte dei cervi febbricitanti, un parallelismo che sottolinea sin da subito il profondo rapporto fra Natura e Uomo nel film. Il secondo è più la ribellione a questa morte, un ultimo e speranzoso lampo di vita. Ossia una serie di “dita medie” alzate e urlate al mondo da uno dei personaggi più teneri e buffi del documentario.
I tre capitoli, invece, cercano di raccontare Brian, la sua comunità e la sua famiglia attraverso dei macro-temi. Under the family tree (Sotto l’albero di famiglia/genealogico), presenta i personaggi e in particolare accenna al fratello perduto di Brian, un lutto che segna la sua intera visione del mondo. Waste land (Terra desolata) è la parte centrale e anche la più intricata del film, quella in cui si fondono i piani temporali e la desolazione si percepisce più a livello emotivo che attraverso i contenuti mostrati. The Land of Tomorrow (Terra del domani) significativamente si incentra sui personaggi più giovani e su di essi conclude il film. Le tre generazioni di minatori che avevano fatto la fortuna del Kentucky orientale non ci sono più, come non c’è più il carbone. E la parola futuro è più pesante che mai in un microcosmo che sembra ormai solo anacronistico.
Ciò che colpisce maggiormente è che il film è girato in più anni, ma non viene mai spiegato l’ordine cronologico delle sequenze. Ci si accorge del tempo che passa dai volti e dai corpi che mutano. Questo perché, appunto, i registi evitano uno stile prosaico e didascalico. Raccontano tutto come fosse un sogno: frammentato, dai confini sfocati eppure coerente e significativo nel suo insieme. Come documentario The Last Hillbilly non si limita a mostrare uno stralcio di realtà, cerca di entrarvi e di condividerne il punto di vista per restituirlo, integro, al pubblico. Non ci stupiremmo quindi di ritrovarlo spesso nei prossimi mesi in molti altri festival. E non ci sorprende che abbia vinto il premio al Miglior documentario internazionale al Torino Film Festival. Ne sentiremo ancora parlare e, intanto, recuperatelo se ne avete l’occasione.