Un film che si è insinuato come un ferro da tortura nella mente degli spettatori. Cult apprezzato da pubblico e critica, celebre horror giapponese di Takashi Miike, adattamento dell’omonimo romanzo di Ryu Murakami. Tornato in sala lo scorso gennaio con Wanted Cinema dal debutto nel 1999 in una nuova versione restaurata.
Un incubo flesso sulla realtà
Shigeharu Aoyama (Ryō Ishibashi), vedovo di mezza età che vive con suo figlio Sigeiko (Tetsu Sawaki), progetta di risposarsi. Sotto consiglio del collega Yasuhisa Yoshigawa (Jun Kunimura) organizza l’audizione per un film. Il solo scopo è però farlo incontrare con delle giovani ragazze. Tra di loro c’è Asami Yamazaki (Eihi Shiina), ex ballerina che colpisce Aoyama per la profondità con cui sembra vivere la vita.
Nasce e si sviluppa un legame romantico tra i due. Ma più il film prosegue più cominciamo a capire di non guardare una semplice storia d’amore. Gli eventi si fanno bizzarri, grotteschi. Il sogno idilliaco sembra deragliare verso un abisso d’orrore. E quando il nostro protagonista si addormenta, un sacco si apre e ci vengono consegnati i pezzi mancanti del puzzle. La storia tra i due si amplia di dettagli. Si costruisce l’incubo nella sua totalità: l’inizio vero e proprio di un terrore da cui è difficile svegliarsi.
Tutto sarà rivelato
Se al centro del romanzo di Murakami c’era il trauma personale, questo nel film viene spostato sullo sfondo. Ma non è secondario. L’importanza prima dell’amore che sembra sbocciare tra Aoyama e Asami, poi delle crudeli torture di cui il nostro protagonista è testimone e vittima, serve a rendere ancora più traumatica la rivelazione che sospettiamo durante la prima parte del film.
Quando capiamo la sofferenza subita da Asami nella sua infanzia, la solitudine e l’odio contro cui da bambina ha dovuto scontrarsi per poi perdere, e l’alone di tenerezza che avvolgeva Aoyama sfuma, anche noi subiamo un trauma. Scopriamo un passato legame con la sua segretaria, un sentimento non puro ma morboso, che lo lega a ciò che scopre di Asami.
SPOILER – Quel sacco contenente un uomo senza lingua, senza piedi e senza tre dita impernia le nostre angosce. Crediamo che anche Aoyama, dopo la droga e le torture, finirà lì, nel buio, a nutrirsi del vomito della nostra killer. Ma Miike ci grazia, sebbene la salvezza di lui e la morte di lei non rendano il finale più dolce. Solo più intimo e frastornante.
Illusione di un amore
La regia di Takashi Miike sposa delle intuizioni geniali che ci trascinano costantemente nell’illusione di guardare un film romantico. Il leggero suono del piano che incornicia i dialoghi iniziali ci culla, così come la contemplazione di un uomo che riscopre la timidezza e la passione amorosa. Sonnecchiamo nell’ombra di Aoyama mentre cerca la felicità. Con l’obiettivo di fare semplicemente un film, e non un film di paura, il regista e il suo team creano un’opera dove il terrore ci assale in maniera subdola e improvvisa, ci lega e rende impotenti. Siamo noi stessi infine prigionieri di un tormento inatteso.
Grande merito è del cast, specialmente Ishibashi e Shiina nell’interpretare la dualità dei loro personaggi, così normali e dolci all’inizio, e così diversi alla fine. Quel canto infantile che si sente durante la tortura finale, idea dell’attrice, ghiaccia ancora oggi il sangue nelle vene degli spettatori.
Miike: mestierante, sognatore, regista
Il curriculum di Takashi Miike fino al 1999 sembra quello di un regista di poco prestigio. Molti film per il circuito home video, inclusa le trilogia di Bodyguard Kiba. Pochi film sullo schermo e per poco tempo, inclusa la trilogia della Black Society. Opere di vario genere a basso budget. Per il pubblico internazionale è un nome di estrema nicchia.
E poi la svolta: l’anno dei trionfi tra il pubblico e la critica mondiali con Audition e Dead or Alive.
La sua filmografia raggiunge nella sua interezza lo stato di culto. Da lì continua a mostrare il suo talento di regista poliedrico e provocatore. L’azione esplosiva che è capace di regalare si rivela in film come i due Crows Zero (2007 e 2009), Like a Dragon (2007) e L’ultimo yakuza (2019). Senza dimenticare l’omaggio ai nostri spaghetti western con Sukiyaki Western Django del 2007.
J-Horror: storia di ieri…
Il cinema dell’orrore giapponese si sviluppa nel dopoguerra. Primo film horror di spessore fu Godzilla del 1954, la cui paura scaturiva dal kaiju (mostro gigante) omonimo. Numerosi furono poi i seguiti, gli scontri con altri mostri e i remake internazionali. Ma il materiale parte delle storie giapponesi di paura viene da leggende folkloristiche e dai racconti d’autore. In molti film troverete spiriti vendicativi e demoni.
Fin dagli anni ’60 questo peculiare cinema fu presto oggetto del plauso della critica e successivamente di apprezzamento da parte del pubblico internazionale. Da Kwaidan (1964) di Masaki Kobayashi, Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes 1965, ai due magistrali horror di Kaneto Shindo: Onibaba (1964) e Kuroneko (1968).
Con gli anni ’80 l’orrore giapponese divenne più splatter, basti pensare a film come Sweet Home di Kiyoshi Kurosawa e Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto, entrambi del 1989.
Storia di oggi…
Verso la fine degli anni ’90 nacquero due saghe di grande successo: Ju-on di Takashi Shimizu e Ringu di Hideo Nakata. Entrambe proseguirono in patria con enorme successo, ma godettero anche di apprezzati remake statunitensi.
Nei primi anni 2000 salirono al rango di cult film come Suicide Club e Strange Circus di Sion Sono e Tokyo Gore Police di Yoshihiro Nishimura (con protagonista sempre Eihi Shiina). In questo periodo si insinua Miike con i suoi horror. Pur non essendo specializzato nel genere, Gozu e The Call (entrambi del 2003) mostrano una mano autoriale capace nel trattare le storie di paura. The Call stesso ha ricevuto un remake statunitense nel 2008, Chiamata senza risposta (One Missed Call).
Ma il talento dell’autore si svela in horror atipici. Opere dove gli individui vengono dipinti in tutta la loro essenza controversa, in cui sono anche la causa stessa della paura, senza dover ricorrere al soprannaturale. Nel 1999 arriva Audition che agita, e non mescola, alla perfezione elementi romantici e orrorifici. Due anni dopo Miike ci regalerà Ichi the Killer e Visitor Q, narrazioni disturbanti venate da un umorismo nero. Tra i due si insinua MPD Psycho, miniserie horror dal tratto surreale che dipinge un’umanità ferita e sconsolata.
La divinizzazione di Audition
Audition godette presto di un’ottima accoglienza mondiale, lanciando il suo regista nel circuito dei festival cinematografici internazionali. Il film venne rilasciato in anteprima a Vancouver il 2 ottobre 1999. Poi all’inizio del 2000 venne premiato dalla critica: Premio FIPRESCI all’International Film Festival di Rotterdam. Da lì la sua strada fu tutta in discesa.
Indicato come fonte d’ispirazione da Eli Roth per il suo capolavoro dello slasher, Hostel (2005) nonché per le sorelle Soska per American Mary (2012). Figura nella Top migliori 20 film usciti dal 1992 di Quentin Tarantino, rilasciata dal regista nel 2009.
La miscela di amore, ossessione e di paura, ne fa un’opera che non invecchia, che non smette di incutere terrore. Ma è anche una storia cinematografica che sa stregare grazie alla sua delicatezza, con la rappresentazione di un sentimento così vero.
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