Ennio
Ennio - Giuseppe Tornatore (2021)

Se a volte il genio sembra un essere umano qualunque, è perché lo è davvero. Può vestirsi da impiegato e indossare occhiali spessi, sotto una testa calva che non si cura dell’apparenza. Può sentirsi insoddisfatto e insicuro, commuoversi e provare rabbia, proprio come un essere umano qualunque, proprio come ognuno di noi.

È questo che ci mostra Giuseppe Tornatore nella sua opera dedicata a Ennio Morricone. Un film che sarebbe sbagliato definire semplicemente come un documentario sulla sua vita, perché lontano dai caratteri di un ritratto e molto più vicino a quelli di un dialogo. Un dialogo tra lo stesso protagonista e chi lo vorrebbe convincere che è un genio, combattendo contro la sua stessa umiltà, la sua ironia e la sua riservatezza.

Quando si pensa a un documentario, l’idea comune è quella di un’opera didascalica che vuole istruire lo spettatore su un determinato argomento, come in una lezione frontale in cui il film si fa docente di uno spettatore trasformato in studente. Ma se questo è davvero ciò che definisce un documentario, allora Ennio è tutt’altro.

L’intenzione di Tornatore, infatti, non è la messa in scena di qualcosa di determinato, ma è innanzitutto dare il via a una conversazione nella quale lo spettatore prende parte in maniera diretta, come un attore, un giudice, o, più semplicemente, un amico. Perché Ennio Morricone sta lì, in prima persona, di fronte a noi, a raccontare apertamente la propria vita nel tentativo di dimostrare quanto questa sia stata normale.

Immagini e musica in Ennio

Ennio è esattamente questo: un dialogo tra il protagonista e il regista nel quale quest’ultimo chiama lo spettatore dalla propria parte per convincere il primo della propria genialità.

E sembra un obiettivo semplice da raggiungere se il suo nome è Ennio Morricone. Eppure diventa uno sforzo appassionato e appassionante se si va oltre il nome, puntando all’uomo e trovandolo timido, riservato, umile e profondamente ironico.

Ma Tornatore ha i suoi argomenti per convincerlo: le immagini e la musica che diventano qualcosa di più, si uniscono, come lui le ha unite a creare qualcosa di nuovo. Argomenti che sono documenti per ricordargli ciò le rivoluzioni che ha realizzato: nella musica leggera (o del pop, che dir si voglia) e nel cinema, fondando un nuovo tipo di arte, indipendente dalla musica, la colonna sonora.

E questi argomenti sono immagini, perché le parole non possono bastare a convincerlo. Immagini che imitano la sua stessa arte, le sue invenzioni, la sua sperimentazione, la sua stessa genialità. Così Tornatore non si limita a passare in rassegna le immagini e i suoni, i film e le musiche, ma li unisce in un montaggio che si fa parte decisiva del suo e del “nostro” discorso di convincimento. Anche arrivando a sfruttare splendidamente la tecnica dello split screen per ricostruire la tecnica musicale del “contrappunto”, quella con cui Morricone ha realizzato le sue rivoluzioni nella musica leggera e nel cinema, riportandola direttamente dalla musica classica.

Gli argomenti di Tornatore, dunque, non sono altro che le dimostrazioni concrete delle azioni geniali di Ennio Morricone. Quelle invenzioni artistiche con cui supera la musica e supera il cinema per creare qualcosa di unico e nuovo, che forse il concetto di “colonna sonora” non riesce a contenere: immagini fatte di musica e musica fatta di immagini.

L’opera di Tornatore è questo appassionante dialogo di convincimento fondato su argomenti incredibili, come incredibile è ogni creazione geniale. Gli stessi, fortissimi argomenti con i quali convince per primi noi spettatori, portandoci dalla sua parte, e trasformando lo sguardo della camera nel nostro sguardo che fissa l’artista dritto negli occhi, fino a vederlo convincersi anche lui della nostra idea, fino a vederlo ridere, piangere, essere semplicemente uomo. Fino a vederlo essere semplicemente Ennio.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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