Ma Rainey's Black Bottom, George C. Wolfe - Credits: Netflix

It would be an empty world without the blues, recita il lancio di Ma Rainey’s Black Bottom sulle locandine ufficiali di Netflix. Perché il blues non serve a cantare la vita, è la vita stessa, come dice Viola Davis nei grandiosi panni della protagonista. Non è solo un genere musicale, è un modo di consumare pienamente l’esistenza, raccogliere gli scarti lanciati dalla società e far nascere qualcosa di diverso e meraviglioso.

Il blues nasce infatti per esprimere l’esperienza quotidiana del vissuto afroamericano dal 1865 in poi. Ossia dall’abolizione ufficiale della schiavitù, quando centinaia di donne e uomini si affacciavano per la prima volta dentro una società non pienamente disposta ad accoglierli. L’oppressione sociale e civile, insieme agli struggimenti personali e romantici, trovavano quindi una nuova forma nella carnalità del blues, così lontano da qualsiasi altro genere musicale preesistente. Fu rivoluzionario l’impatto che ebbero nell’immaginario negli anni Venti voci e personalità come Bessie Smith o Billie Holiday, ma già prima di loro esisteva una madre del blues, di cui ad oggi rimangono solo sette fotografie e qualche vinile: Ma Rainey.

È lei che questo film e l’opera teatrale da cui è tratto celebrano insieme all’eredità culturale che porta con sé.

La band di Ma Rainey in una foto d'epoca
La band di Ma Rainey in una foto d’epoca

Ma Rainey’s Black Bottom, dal palcoscenico allo schermo

Ma Rainey’s Black Bottom è un’opera teatrale del 1984 firmata dal grande drammaturgo August Wilson. È inoltre il secondo capitolo di un intero ciclo sull’esperienza afroamericana in ogni decennio del ventesimo secolo: il Ciclo di Pittsburgh.

Apparentemente la vicenda si incentra su un unico evento, una sessione di registrazione di Ma Rainey e la sua band per la Paramount Records. Diventa tuttavia l’occasione per affrontare diverse tematiche sulla condizione afroamericana nei tardi anni Venti. Siamo in particolare nel 1927 a Chicago, è il periodo quindi della Grande Migrazione dalle piantagioni del Sud ai conglomerati urbani del Nord, con la promessa mai mantenuta del riscatto sociale.

Il regista George C. Wolfe decide di mantenere le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Tutto avviene nell’arco di poche ore in studio, senza nessun cambio di costumi e scenografia, tranne che per la sequenza iniziale della tenda. Molto utile a marcare la differenza tra la vita a Sud e quella a Nord. Wolfe decide sostanzialmente, però, di spostare l’ambientazione dall’inverno della pièce a una torrida estate di Chicago. Uno di quei giorni in cui il cielo è bianco, l’aria è afosa e il calore che non riesce a penetrare nell’asfalto si riversa sui corpi umani. Il sudore e la continua sensazione di soffocamento fisico rendono evidente la necessità di un momento di esplosione, di catarsi che prima o poi nel film è destinata a riportare equilibrio.

Ma Rainey e Levee, antagonisti e co-protagonisti

Protagonista, come accennato, è Viola Davis, già vincitrice di un Oscar e un Tony Award per la rappresentazione precedente di un’opera di Wilson: Barriere (Fences, 2016). Questa volta non ha accanto Denzel Washington, che comunque figura come produttore, ma un emozionante Chadwick Boseman (Levee), al suo ultimo ruolo prima della prematura morte. Proprio a lui, infatti, è dedicato il film, in un tributo finale alle sue doti artistiche e al suo cuore (In celebration of his artistry and heart).

Ma Rainey e Levee sono personaggi antitetici e fortemente in conflitto su tutti i fronti. La prima rappresenta il passato, il vecchio blues del Sud che procede lento fino a scavarti nell’anima. Il secondo sogna Harlem e una nuova musica in grado di scuotere e rallegrare lo spirito. La loro rivalità si esprime tanto sul piano professionale quanto su quello amoroso, e non è un fatto irrilevante, perché serve anche a caratterizzare i personaggi.

Chadwick Boseman e Viola Davis, Ma Rainey's Black Bottom - Credits: Netflix
Chadwick Boseman e Viola Davis, Ma Rainey’s Black Bottom – Credits: Netflix

Viola Davis

La prima volta che vediamo Ma Rainey in scena scopriamo subito il suo atteggiamento di sfida verso il giudizio altrui, mentre abbraccia la sua amante di fronte a decine di sguardi scandalizzati. È una donna forte, autoritaria, perfettamente consapevole di sé e per questo apparentemente inscalfibile. È una black woman in un business di uomini bianchi, ma nessuno osa contraddirla. Sua è la musica, sua è l’attenzione, sua è la band che l’accompagna senza mai batter ciglio. Solo Levee prova ad andare controcorrente e in un certo senso si intuisce subito che sarà solo lui a scontrarsi contro un muro. Perché Levee ha talento, stile e capacità, ma non ha la pazienza e l’esperienza per sfondare in questo mondo.

Viola Davis incarna alla perfezione ogni sguardo, ogni movimento, ogni passo di questa Regina, pienamente in controllo del suo regno. Ma Rainey comprende benissimo, infatti, che i due uomini bianchi in sala registrazione (e tutto il giro d’affari dietro) non hanno a cuore né lei né lo spirito della sua musica. Vogliono solo la sua voce, registrata su un misero oggetto per poter essere rivenduta in serie. Lo sa fin da quando mette piede nello studio, per questo ogni cosa che fa è intrisa di un pizzico della sua ribellione, o meglio della sua resistenza.

Chadwick Boseman

La vera scena, tuttavia, è tutta di Chadwick Boseman, che probabilmente è da considerare protagonista al pari di Viola Davis. Il suo Levee è un turbinio di personaggi che si susseguono aprendo di volta in volta un nuovo livello di profondità. Il film lo presenta come un coon (stereotipo del buffone), allegro, superficiale e spensierato. Particolarmente felice per il paio di scarpe di cuoio giallo che ha appena acquistato. Elemento estremamente significativo per la trama e per ciò che rappresentano in essa: qualcosa di bello, guadagnato con il sudore e l’umiliazione. Man mano che a Boseman viene dato spazio di azione, però, Levee ci mostra altre sfaccettature, soprattutto attraverso due toccanti monologhi.

Michael Potts, Chadwick Boseman, Colman Domingo, Ma Rainey's Black Bottom - Credits: Netflix
Michael Potts, Chadwick Boseman, Colman Domingo, Ma Rainey’s Black Bottom – Credits: Netflix

Il primo, che racconta tutto l’odio nei confronti dell’uomo bianco, è indispensabile a comprendere la caduta finale del personaggio. Il secondo, invece, che è uno sfogo dell’umano contro il divino, trascende a tratti la finzione e sembra quasi fuori misura rispetto al tono del film. Tuttavia è stato conservato così com’è, per l’intensità che Boseman mette qui in atto. Intensità tale da stupire anche Colman Domingo, co-protagonista della scena in questione. Probabilmente perché in quel momento, come afferma poi Domingo, in scena tra loro c’era un terzo personaggio, la Morte, e solo Boseman ne era a conoscenza.

La Band e i Race Records

Cutler, Toledo e Slow Drag, in teoria sono la band sullo sfondo, che la lascia tutta la scena a Ma Rainey. In realtà, ognuno di loro è stupendamente caratterizzato per rappresentare diversi aspetti della cultura afroamericana. Nel film hanno rispettivamente i volti di Colman Domingo, Glynn Turman e Michael Potts. In particolare a Toledo è affidata la riflessione più apertamente politica sulla condizione afroamericana. È colui che cioè si espone di più, salvo poi lasciarsi zittire dai suoi stessi compagni a suon di musica e scherzi, apparentemente spensierati.

Nessuno degli attori suona realmente (anche se Boseman studiò le diteggiature della tromba per perfezionare la simulazione). Quando si ritrovano in sala prove, però, riescono a rappresentare appieno l’energia e la fisicità di quel blues. Un’energia che stride fortemente e volontariamente con le orchestre bianche, rigide e impomatate che in quegli stessi anni si impossessarono del blues senza comprenderne o condividerne lo spirito.

Il finale è molto chiaro su questo. L’appropriazione culturale e musicale era iniziata con i Race records, ossia i dischi di artisti neri, per il pubblico nero, commercializzati da agenti bianchi che erano gli unici ad arricchirsi. Tutta la sottotrama del film ruota intorno a questa condizione, in effetti. E si conclude poi con lo schiaffo finale, un attentato morale e metaforico a tutto ciò che il blues rappresenta e che non si può solo rieseguire da uno spartito. Deve essere sentito nella carne, nelle ossa e sulla pelle, altrimenti, semplicemente, non è blues.

Vi consigliamo vivamente questo film su Netflix, insieme allo speciale di mezz’ora sul dietro le quinte, presente sempre sulla piattaforma.

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