Shining
Shining, Stanley Kubrick (1980)

Shining (The Shining) nasce da un libro, per diventare incubo immortale. Dalle pagine di Stephen King alle visioni di Stanley Kubrick: la mostruosità della psiche umana e illogici, magistrali, corridoi inondati di sangue.

Chi non ha mai visto Shining non conosce il vero terrore, sibilato lento all’orecchio dell’uomo che decide di trucidare la sua famiglia, consigliato da voci di fantasmi provenienti da antri bui di un hotel totalmente isolato. E dalla sua mente disturbata, non dimentichiamolo, che vacilla ad ogni passo, lungo il corridoio pieno di stanze e di orrori dimenticati.

Ormai collage indelebile di tasselli orrorifici, Shining è il terzultimo lungometraggio del genio Stanley Kubrick (perché solo un genio può realizzare all’interno della stessa esistenza film come 2001: Odissea nello spazio e Full Metal Jacket).

Viene considerato iconico per le tracce di paura che inserisce nel racconto. Aggrappate a timori ancestrali, come la solitudine, il fallimento, si traducono in immagini difficili da raschiare dalla mente.

Vuoi giocare con noi?

Shining, illustrazione di Cristiano Baricelli.

Il romanzo di Stephen King, pubblicato nel 1977, è molto diverso dalla trasposizione cinematografica del 1980. A dirla tutta l’autore non aveva proprio apprezzato il film, che produce differenze sostanziali sia per quanto riguarda i personaggi che per il fulcro stesso della narrazione.

Kubrick trasla il mostruoso dal sovrannaturale all’umano: se nel libro la scintilla scatenante sono i poteri del piccolo Danny alla presenza dei fantasmi di un luogo stregato, nella pellicola lo stato mentale di Jack è fortemente in bilico dalla sua prima apparizione. Ovviamente l’abuso di alcol e gli attacchi di rabbia lo rendono il soggetto ideale da raggirare grazie ad oscuri poltergeist. A renderlo quindi un racconto “moderno” nel vero senso della parola, è il rilievo che acquista l’uomo, artefice in primis dei terrori della sua esistenza.

Kubrick dissemina lungo la permanenza all’Overlook Hotel flash demoniaci frutto di complessi inferni mentali. Vuoi giocare con noi? Chiedono le gemelline fantasma a Danny, e a noi spettatori. Senza saperlo accettiamo, e suggelliamo il patto di non dimenticarle mai. Tale immagine nasce direttamente dalla sceneggiatura del regista, nel libro le bambine esistono ma non sono gemelle, e non appaiono nei loro vestitini inamidati con i calzettoni candidi fino al ginocchio.

Come se ci fossimo stati

Come le bambine alla ricerca di un compagno di giochi (eterno), altri dettagli e oggetti costellano Shining permanendo a lungo nella percezione dello spettatore. Basta pensare al pavimento dell’hotel, dal ridondante motivo geometrico, ipnotico sotto le ruote di un piccolo triciclo guidato nei lunghi corridoi. La macchina da scrivere di Jack, la sua ascia conficcata in porte pesanti e corpi sanguinanti, il labirinto, gigantesco e piccolo, per guardare e guardarsi.

Chi non ha mai visto Shining non conosce il vero terrore, che scaturisce dalla profonda insoddisfazione di una vita mediocre per diffondersi come un virus inarrestabile. Kubrick ne dirige i deliri, le spaventose conseguenze, nel film horror più bello e perturbante di sempre. La follia di Jack Torrance è una deriva liberatoria dai mostri della propria coscienza, il dono di suo figlio un’arma a doppio taglio. E nulla è come sembra perché la mente continua ad essere il miglior labirinto mai esistito.

E a noi spettatori non resta che continuare a giocare con lui.

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L’illustrazione originale è di Cristiano Baricelli, che ringraziamo. Qui il suo sito ufficiale.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.

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