
Quasi inevitabile il cliché del «ma cosa diavolo ho visto?» alla fine di Siberia, (pen)ultimo film di Abel Ferrara: perché dopo le peregrinazioni dell’alter-ego Willem Dafoe trainato dagli husky fra i ghiacci e le grotte, le sabbie e le oasi della (sua) psiche colpevole, si esce da 92 minuti tra i più onirici dell’allucinato 2020. Difficile trattenerne i materiali evanescenti. Difficile valutarli, tra lampi (di genio) stranianti e vanità d’autore che (si) dibatte tra es e super-io, ricordi e rimandi, Nietzsche e Cristo. Cinema di un peccatore radicale: per fortuna.