«Dove va l’umanità? Boh!». Sunto di un’intervista a Mao, secondo l’ironica didascalia iniziale di Uccellacci e uccellini. Ed è desolatamente ironico questo capolavoro del Pasolini regista, visionario spartiacque della sua produzione (non solo) cinematografica.
La favola grottesca di Innocenti padre e figlio (Totò e Ninetto Davoli), accompagnati nel loro cammino da un corvo marxista parlante (doppiato da Francesco Leonetti) allude, come scrive l’autore, a un «mandato scaduto». Quello dell’intellettuale di sinistra, superato e impotente di fronte alla nuova egemonia del capitalismo consumista che va omologando lingue, culture e coscienze al paradigma borghese.
Infatti, mentre il corvo racconta la storia di due frati medievali (ancora Totò e Ninetto) che, cercando di evangelizzare i falchi e i passerotti, scoprono le differenze e i conflitti di classe tra gli uni e gli altri, nel presente va in scena la nuova guerra tra poveri. I due penultimi sfrattano gli ultimi per conto dell’abbiente e abietto padrone di casa, e il volatile chiacchierone sarà cucinato arrosto dai due rappresentanti del popolo di cui vorrebbe essere «compagno di strada».
L’unica, forse, è abbandonare i vecchi dogmi razionalisti dell’Occidente progressista (e neocolonialista) per aprirsi all’alterità culturale del “Terzo Mondo”, come suggerisce l’episodio (purtroppo perduto) di Totò domatore-intellettuale che cerca di invano addomesticare l’aquila e finirà “addomesticato”.
Dal realismo all’allegoria, il mutamento di Pasolini in Uccellacci e uccellini
Ma la crisi ideologico-politica non è affatto resa artistico-culturale, al contrario: il marxista eretico Pasolini reagisce, a partire da questo film, mettendosi (come già fatto e come farà ancora) stilisticamente in discussione. Dal realismo espressionista dei primi film si passa all’allegoria comico-surreale e ad una frammentazione e commistione ancora più radicale di generi e toni: dagli apparentemente scanzonati titoli di testa cantati da Domenico Modugno al dolente inserto documentaristico sui funerali di Togliatti. Ed è in fondo (anche, soprattutto) un altro modo, per l’autore più disperatamente vitale del nostro Novecento, di «gettare il proprio corpo nella lotta».