Oggetto di culto, giocattolo longevo, simbolo che unisce correnti di pensiero e opinioni in conflitto, Barbie ha ispirato migliaia di persone tra artisti, stilisti, designer e ovviamente bambine e bambini.
Ora arriva al cinema con Greta Gerwig come protagonista di Barbie, attesissimo da chi non vede l’ora di vedere in che direzione si è mossa la regista all’interno dell’iconico e glitteroso mondo rosa nato verso le fine degli anni ’50. Annunciata come la storia perfetta sia per chi ama Barbie, ma anche per chi la odia, porta la bambola nel mondo reale in seguito all’incipit di una crisi esistenziale pronta a ribaltarle la vita, scostandola dall’idea di realtà ideale dove tutto è fatto di feste stratosferiche, outfit incredibili e giornate trascorse tra la spiaggia e la pista da ballo.
Ma se questo è il punto di arrivo (almeno per ora), è certo che la storia di Barbie per alcuni abbia costituito molto più che una novità sul mercato dei giocattoli e che quel You can be anything sia arrivato forte e chiaro. Mi piace pensare che sia così anche per Greta Gerwig che, con il suo stile riflessivo ma molto ironico, ci promette una decostruzione completa e al tempo stesso una celebrazione senza pari.
Barbie è una femminista?
Partiamo subito dall’argomento più rovente, quello che per molte è la legittimazione di una passione inconfessabile: Barbie è una femminista o no? Attenzione, probabilmente la risposta a questa domanda sarà coerente con l’effetto che vi farà il film con Margot Robbie.
La discussione che ruota attorno a Barbie circa il suo essere un oggetto simbolico per una lotta che parte dai primi giochi di una bambina esiste praticamente da quando la bambola è nata, e continua con i primi commenti al film di prossima uscita. Ne ha scritto recentemente Abbey White su The Hollywood Reporter: per l’attrice protagonista (e gran parte del team creativo) Barbie sarà un film femminista, ma i dirigenti della Mattel non sono del tutto d’accordo.
La discordanza delle due posizioni risiede alla base dell’opinione personale che ognuno ha maturato nei confronti di Barbie e del suo effetto sulla società.
All’interno di un’eterna contrapposizione non si può negare che l’ispirazione più importante per la sua creazione fu un “giocattolo” per adulti, una bambola considerata osé che riprendeva i tratti di un discinto personaggio dei fumetti, Lilli, apparso sul tabloid tedesco Bild, e che il suo debutto sul mercato il 9 marzo 1959 fu in costume da bagno (inizialmente un fiasco). È anche vero che, nonostante le limitazioni del suo tempo, Barbie ha convinto molte bambine (e bambini, che magari ci giocavano di nascosto) che non sarebbero state costrette solo a stirare e accudire bambini: potevano diventare astronaute, insegnanti, ginnaste o presentatrici televisive. Anche se negli anni ’60 le carriere di Barbie sembravano più complementari a quelle di Ken.
Senza dimenticare la necessaria ondata di inclusività che negli ultimi anni ha fatto in modo che venissero prodotte bambole con caratteristiche diverse: tantissime tonalità per il colore della pelle, acconciature per nulla ordinarie, corpi di qualsiasi tipologia.
Che il femminismo sia nell’occhio di chi guarda? Oppure Barbie è sempre stata una rivoluzionaria incatenata in crudeli leggi di mercato? Optando per la seconda è importante risalire al suo background, quello formato da uomini (fin troppi) e donne (fondamentali) che l’hanno portata fino a noi, fino a Greta Gerwig.
Un gioco da bambine
Consiglio un interessantissimo documentario disponibile su Netflix, all’interno della serie tematica The Toys That Made Us (I giocattoli della nostra infanzia), dedicato alla creazione della bambola più famosa e celebrata di sempre. Si tratta della seconda puntata della prima stagione e in poco meno di sessanta minuti, con un linguaggio super pop, ne ripercorre la nascita, l’evoluzione, i cambiamenti di stile e di aspetto estetico, le battute d’arresto e le possibilità creative. Tutto ha inizio proprio con una mamma (in questo caso già inserita nel contesto di creazione di giochi per l’infanzia) alla ricerca di un’alternativa affinché la sua bambina, Barbara, non fosse costretta a ripiegare su “attrezzature” casalinghe in miniatura che la indirizzassero unicamente verso un “roseo” futuro da donna di casa. Una prigione che iniziava con bambolotti e pentoline per qualsiasi bambina di quegli anni.
Prima prendendo ispirazione dalla bamboline di carta e dalle possibilità di cambiarle d’abito in continuazione, poi con la bambola tedesca di cui parlavo poco fa, Ruth Handler con il marito Elliot, con il quale aveva co-fondato la Mattel nel 1945, diede vita a Barbie. L’obiettivo era creare una nuova base su cui la fantasia delle bambine potesse volare, attraverso le narrazioni che la bambola poteva suscitare o tramite le tantissime possibilità di guardaroba, a cui poi si aggiunsero gli accessori come macchine, set da pic-nic e molto altro. Una vera e propria architettura di gioco, completa di qualsiasi dettaglio.
C’è chi in quel corpo perfetto e modellato ha sempre visto più un giocattolo per adulti, più per i papà che per bambine (un giocattolo con il seno era inaccettabile per molte mamme), chi ne ha fatto una tela bianca su cui dipingere i propri sogni. Come Charlotte Johnson, la prima stilista di Barbie, nonché la fonte di ispirazione per la posa delle sue mani, o come lo stilista e costumista Bob Mackie, che contribuì negli anni ’90 a dare alla bambola un’espressione del viso più riflessiva ed intensa.
Un nuovo modo di giocare (e pensare)
L’empowerment femminile può avvenire anche in tempi non sospetti, manifestarsi attraverso una bambola che indossa una tuta spaziale e sopravvivere durante anni difficili per la parità dei sessi sempre con grandissima dignità, costruendo passo dopo passo la sua strada per il successo. L’essere considerata un giocattolo “sessualizzato” ha fatto in parte eco alla paura del femminile e all’effetto che poteva esercitare su intere generazioni di bambini.
Eppure chi ci ha giocato prima della grande crisi dei primi anni duemila (causata dalla competizione con altri giochi come le Bratz e dal calo di vendite) ne ricorda soprattutto le potenzialità illimitate: un nuovo modo di giocare, un nuovo modo di pensare che fosse finalmente libero dalla bidimensionalità delle bamboline di carta.
Nonostante gli aspetti molto meno “pink” del percorso di Barbie, legati alle controversie economiche, al conflitto tra Ruth Handler e il designer della bambola Jack Ryan e alle cadute di stile che nel tempo il marchio le ha procurato, lei continua a riempire gli scaffali dei negozi. Molte bambine ci giocano ancora e tra queste ce ne sono alcune che finalmente hanno una bambola che somiglia al loro aspetto. Molti bambini hanno iniziato a sentirsi liberi avvicinandosi a quel mondo.
Barbie è il simbolo della potenzialità illimitata di creare storie, Barbie è narrazione. E Greta Gerwig lo vuole ricordare anche a chi su questo ha sempre avuto un preconcetto.
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