La cosa peggiore che sarebbe potuta accadere con House of Gucci era che, uscita dalla sala, non potessi gridare al capolavoro. Vi anticipo che la mia reazione è stata tutt’altra: un’uscita sommessa e infastidita con testa bassa e arrovellamenti mentali. Soprattutto dopo aspettative paragonabili a quelle che ha un bambino di scartare i regali sotto l’albero, io attendevo questo film come una dolce sorpresa. Di certo non un nuovo colossal, ma almeno un film intenso da brividi ed emozioni, a cui continuare a pensare anche giorni, mesi.
House of Gucci: cosa ricorderò e cosa voglio dimenticare
Ricorderò sicuramente due interpretazioni in particolare: quelle di Lady Gaga e di Adam Driver. Rispettivamente Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci, esseri umani agli antipodi, sia per provenienza che per temperamento, perfettamente confluiti nelle capacità attoriali dei due (sebbene Gaga a volte sopra le righe, ma si sente lo zampino di una direzione di regia tesa ad esagerare i toni).
Ciò che vorrei dimenticare è la smodata e macchiettistica resa di una famiglia problematica, in primis, e di un’italianità comunicata tramite passioni veraci e gesti senza misura. Come in una pubblicità che reclamizza una marca di pasta spingendo sul Made in Italy, così House of Gucci reclamizza se stesso e tratta troppo spesso con ironia un dramma, più o meno sfruttando gli stessi luoghi comuni.
Come in un cinepanettone ambientato a Cortina
Il più grande problema del film, che dilaga e invade sia la narrazione in toto che l’effetto finale, sta nella concezione della lingua italiana riversata in un lungometraggio con attori anglofoni. Meglio un cast interamente italiano per un film americano o un mix pericoloso di interpreti italiani e non, infarcito di nozioni errate sugli accenti ed intento a raccontare qualcosa di molto lontano la lui?
Di volta in volta, il paese in cui verrà proiettato sarà il “peso” che più graverà sull’ago della bilancia dell’effetto finale, e del giudizio che può darne lo spettatore. Se lo guarderete doppiato probabilmente lo scoglio di cui parlo (che mi ha colpito dritto in fronte) non emergerà più di tanto, ma sappiate che in lingua originale l’effetto è ridicolo.
Maurizio vive a Milano, anche Patrizia (stessa provincia almeno), mentre lo zio Aldo (Al Pacino) e suo figlio Paolo (Jared leto) dovrebbero avere un accento che fonde il toscano all’inglese imparato a New York.
Tranne la tragica vittima, figlio ed erede maldestro di Rodolfo Gucci (Jeremy Irons), tutti incespicano in un italoamericano che snatura la percezione dell’intera storia. La fusione di parole italiane e lingua inglese risulta comica, e va ad alleggerire la portata drammatica del racconto. Prima di arrivare al dunque, all’omicidio e al processo (sezione più bella del film, forse merito dei pochi dialoghi) ciò che più fa rabbrividire è l’impressione di trovarsi davanti ad un cinepanettone. Non solo per la forma, che ha una deriva umoristica in troppi momenti, ma anche per la trama (o per come viene raccontata). Emblematiche in questo senso le sequenze in montagna, dove una Gaga impunita beve il caffè, lecca il cucchiaino godendoselo fino in fondo, e controlla il consorte Adam/Christian De Sica giocare sulla neve con la figlioletta (e pensare alla bella bionda con cui tradirla).
(In questa proiezione mentale grottesca Jared Leto si trasforma in un Massimo Boldi abbandonato dalla moglie per debiti ed impotenza).
Consistenti aspettative per un capitolo di storia nero e cavilloso
Non solo un cast da capogiro, ma una di quelle storie nere appartenenti alla nostra cronaca che ancora oggi provocano sensazioni contrastanti.
La fine di Maurizio Gucci, per mano di Benedetto Ceraulo nel 1995, appartiene ad una grossa nebulosa drammatica nell’ancor più drammatica epopea del celebre marchio Gucci. Tanto per arricchire il quadro di possibilità, una vedova nera ancora in vita (mandante dell’omicidio del marito) che dopo aver scontato 18 anni di reclusione non vuole proprio saperne di come Lady Gaga abbia interpretato la sua vita. Ridley Scott aveva tutto a portata di mano ma si è perso nell’avvenenza dei suoi interpreti, nella bellezza delle location, e non ha curato la parte più significativa, ovvero il futuro del film.
Il dramma è tangibile ma non rimane sulla pelle: viene commesso un terribile crimine ma l’unica immagine che mi rimane in testa è Adam Driver che si beve il caffè con il cameriere che lo saluta in italiano e Jared Leto con il suo trucco prostetico e la voce lamentosa. La regia è in equilibrio, sopra una deriva fallimentare che non tratterrà House of Gucci nella classifica dei film migliori del 2021.
L’opera di Scott (tratta da House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine di Sara Gay Forden), purtroppo non si contraddistingue con un’identità definita e perde il contatto con la realtà, la nostra realtà storica. Con aggressiva approssimazione il film procede non inquadrando mai la parte più interessante. La sua percezione, o almeno quella a cui tutti gli spettatori anelavano, si stinge come un tessuto malriuscito, invece di comunicarsi a tinte piene. Una visione esterna che alza i toni invece di rispettarli è l’esito che temevo, ma non quello in cui speravo.
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