One Night in Miami è la grande sorpresa di questa stagione cinematografica. Da quando, lo scorso settembre, si è aggiunto in corsa alla Mostra di Venezia non ha fatto altro che far parlare di sé. E naturalmente della sua regista, l’attrice Regina King, al primo lungometraggio dietro la macchina da presa.
Ci vuole coraggio a mettere quattro uomini in una stanza e farli confrontare, visceralmente, per due ore di film. Soprattutto se quegli uomini rispondono ai quattro ingombranti nomi di Malcolm X, Cassius Clay, Sam Cooke e Jim Brown. Ci vuole coraggio nell’ascoltare tutto ciò che hanno da dire, anche quando fa male o si rischia di non capire fino in fondo. Quel che chiede questa ordinaria storia di uomini straordinari, che inizia come un confronto tra quattro amici, è solo uno spazio aperto e pubblico di discussione. Un dibattito accorato, ideologico, morale, sociale e politico di quelli a cui non siamo forse più abituati, né come spettatori né come cittadini.
Da dove parte e dove vuole arrivare One Night in Miami
È il 25 febbraio 1964. Quella notte a Miami (per riprende il titolo italiano) in cui il pugile ventiduenne Clay vinse il titolo mondiale contro Sonny Liston e trascorse realmente il resto della serata con gli altri tre grandi protagonisti – ognuno a suo modo – della cultura afroamericana di quegli anni. Non sappiamo cosa si dissero, ma ci piace immaginare che sia stato proprio ciò che ha scritto Kemp Powers, sceneggiatore del film e autore dell’omonima opera teatrale da cui è tratto. Tutto nasce e ruota intorno a questo combattimento leggendario e in un certo senso diventa sempre più chiaro che, man mano che la storia avanza, noi continuiamo a guardare degli scontri su un ipotetico ring. Una catena di conflitti, uno contro uno, in cui gli unici colpi sono quelli che questi uomini sferzano con le parole, pur amandosi profondamente l’un l’altro, come fratelli.
La regia di Regina King
Regina King pone il suo sguardo su una storia totalmente maschile e, soprattutto, su un cast interamente maschile. Non ha molto senso sottolinearlo se non per il triste record che rappresenta, in quanto sono pochissime le produzioni che danno alle registe donne la possibilità di misurarsi con storie non necessariamente femminili.
Sceglie di mantenere per lo più l’ambientazione chiusa e claustrofobica dell’opera teatrale, la camera d’hotel, in cui le tensioni si comprimono fino a esplodere. Tuttavia sembra che ne voglia uscire continuamente. Dentro la stanza asettica e spoglia, infatti, si limita a guidare – in maniera comunque impeccabile – le stupefacenti performance degli attori protagonisti. È all’esterno di essa, tuttavia, che mostra il suo vero talento registico. Si pensi, per esempio, alle quattro sequenze introduttive, ognuna pensata e ritagliata su misura per il personaggio che va a presentare al pubblico. Tutte, però, tenute insieme e rese coerenti dalla stessa idea di fondo: la sconfitta, l’umiliazione e il senso di perdita. Sensazioni che inevitabilmente sono poi responsabili del conflitto centrale tra i quattro, riguardo l’incarnazione e il senso della blackness in un Paese segregato e razzista.
Tra i quattro punti di vista non c’è nessun vincitore, eppure ognuno riesce a scavare nella coscienza dello spettatore. Ed è forse questa la vera vittoria del film.
Potrebbe già bastare questo per consigliarvi la visione senza ulteriori spoiler, ma poiché i quattro protagonisti sono proprio l’essenza dell’opera, è su di loro che desidero focalizzare la mia analisi. Spero mi seguirete fino alla fine.
Cassius Clay
Eli Goree inizia il film interpretando un ragazzo tronfio, pieno di entusiasmo e vitalità infantile e lo conclude trasformandosi in Muhammad Ali. Il grande pugile che rifiutò il nome da schiavo e quindi qualsiasi altra forma di controllo del suo corpo e del suo talento. Un punto focale della storia qui raccontata è proprio il suo avvicinamento personale a Malcolm X e la conversione all’Islam. Complice la giovanissima età, anche rispetto agli altri, è il personaggio che subisce il maggior arco evolutivo, in brevissimo tempo, senza mai però perdere credibilità.
Crediamo sia vanesio e immaturo, per poi scoprirlo attento, acuto e pragmatico. È a lui, non a caso, che Regina King affida un’importante riflessione metacinematografica. Quando infatti Jim Brown gli confessa di aver ottenuto in un western la parte dell’eroe nero, “che muore a metà film”, il ragazzo scoppia in una risata amara. Come a voler dire, se non ti accorgi che il vero eroe non è mai nero e non muore mai a metà film, in che mondo pensi di vivere?
Cassius, poi Muhammad, insegue il black power a modo suo, facendosi largo con i suoi stessi pugni. Young, beautiful, righteous, unapologetic: è così che si vede ed è così che vuole essere visto dagli altri, senza compromessi. Non è però sciocco e sa che, per farlo, non può rimanere da solo, ha bisogno di un potere che lo sostenga e lo trova temporaneamente nella Nazione dell’Islam.
Jim Brown
In quanto giocatore della NFL e poi attore hollywoodiano, Jim Brown in One Night in Miami rappresenta il sogno evanescente della black star. Ammirata, omaggiata, osannata ma in fin dei conti trattata sempre e solo come un corpo nero da mettere alla prova. Che sia da atleta o da copertina. A dare questo corpo e quest’immagine al film di Regina King è Aldis Hodge. Aitante, affascinante e con un’aria sostenuta che fa chiedere più volte allo spettatore perché sia effettivamente lì con gli altri tre. Eppure è evidente, fra tutti è il più simile a Cassius o quanto meno crede di esserlo. Per questo è anche turbato dalla sua conversione all’Islam e alla vicinanza con Malcolm X.
Voi militanti – dice a quest’ultimo – curiosamente avete sempre la pelle chiara. Riferendosi al fatto che i dark-skinned, come lui, non militano perché non hanno niente da dimostrare a nessuno. La loro stessa pelle più scura, discriminata tra i discriminati, è un atto di resistenza.
La sua rivendicazione del black power risiede in un complesso compromesso psicologico fra il successo e l’identità. Essere considerato una star dagli uomini bianchi non può e non deve fargli dimenticare il fatto che ai loro occhi lui sia solo un corpo, non un essere umano. Accettare quest’ammirazione lo priverebbe di qualsiasi controllo e qualsiasi potere. Io e te siamo dei gladiatori – dice a Cassius riguardo il loro status di star sportive – in attesa che il padrone faccia un pollice in su o un pollice in giù. Ma io non voglio padroni.
Sam Cooke
Mr. Soul, così come si autodefinisce nel film, è presentato come la voce più potente di tutte, quella in grado di muovere gli animi senza alzare un dito. Ma anche quella che si limita alle canzonette romantiche, mentre il mondo va a fuoco. È così che lo vede Malcolm X ed è per questo che il conflitto con lui è il più acceso e il più ideologico di tutti, oltre che il più lungo nel film. Uno scontro fra titani. Sam Cooke cantava d’amore, non di politica, eppure quando Malcolm fa partire Blowin’ in the Wind al giradischi capiamo che qualcosa si spezza irrimediabilmente.
Perché un ragazzo bianco del Minnesota, Bob Dylan, riesce a rivolgersi a un popolo oppresso meglio della sua più grande voce? Sam Cooke non era certo Jackie Wilson né James Brown. Saliva sul palco senza piroette, senza capriole e senza il peso umiliante del coon, dell’intrattenitore “buffone”. Il successo della sua etichetta non solo lo rendeva straordinariamente ricco, ma definiva la sua stessa, assoluta, libertà dall’uomo bianco. In un Paese fondato sul denaro, la massima aspirazione di libertà era ed è infatti quella economica.
Il film insiste sul fatto che Sam Cooke sia l’uomo più libero fra tutti e quattro, anche quando le sue azioni non vengono capite dagli altri. Comprendere la sua forma di resistenza, probabilmente vuol dire comprendere il senso dell’intero film, ossia che non esiste un solo modo di combattere. A volte si può anche provare a ribaltare il sistema dall’interno, e riuscirci. Come fa Cooke, vendendo sì le canzoni ai Rolling Stones, ma tenendosi i diritti, facendoli implicitamente lavorare per lui.
Everyone wants a piece of the pie. I don’t want the damn pie, I want the recipe. [Tutti voglio una fetta della torta, io non voglio la dannata torta, voglio la ricetta].
Lesie Odom Jr – Sam Cooke
Eppure il personaggio di Sam Cooke non si esaurisce nemmeno in questo. Comprendere il suo punto di vista non ci preclude la possibilità di emozionarci profondamente quando Leslie Odom Jr (che gli dà volto e voce) intona finalmente le prime note di A Change is Gonna Come. Brano ispirato proprio da Blowin’ in the Wind, come una sorta di risposta a Dylan, e ormai universalmente riconosciuto come un inno del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.
Malcolm X
È il tempo dei martiri e io sarò uno di loro, per la causa della fratellanza: l’unica cosa che può salvare il Paese.
Malcolm X, 19 febbraio 1965 – Due giorni prima del suo assassinio
Con queste parole su fondo nero si conclude One Night in Miami, rivelando quello che fino a ora era rimasto un sottotesto: è Malcolm X che guida la storia.
Malcolm che raduna i quattro nella stanza d’albergo; Malcolm che accompagna Cassius nella conversione all’Islam; sempre Malcolm che si scontra frontalmente e deliberatamente con Jim e Sam. Perché? Per la causa della fratellanza. Perché gli uomini neri muoiono ogni giorno per strada e non c’è più tempo per stare a guardare.
This is a wake up call. There’s no room for anyone. Black people are dying everywhere.
One Night in Miami
E non importa che lo dica nel 1964 oppure oggi. Non importa che lo dica il vero Malcolm X o quello con il volto di Kingsley Ben-Adir, criticato perché inglese e non americano. La causa è più urgente di qualsiasi polemica intorno. La causa è Black Lives Matter, everywhere, senza neanche dirlo.
Di tutti i leader, donne e uomini, del movimento per i diritti civili, Malcolm X è quello meno compreso, quello più temuto e mistificato da chi non è direttamente coinvolto nelle sue lotte. Eppure è un’anima ancora radicata e presente nell’esperienza afroamericana contemporanea. Vederlo nuovamente sullo schermo, con una sensibilità diversa, di amico e di fratello, ci ricorda l’uomo dietro il simbolo. Ci ricorda la complessità e la profondità di un pensiero che non può essere ridotto a uno slogan.
By any means necessary, a volte può voler semplicemente dire affrontare crudelmente un amico, in una qualsiasi notte di febbraio, credendo di aprirgli gli occhi. E finire con il capire molto più di quel che pensavi di sapere.
E vale lo stesso per chiunque voglia dedicare un paio d’ore a questo film e affrontare la complessità di un discorso che va oltre gli eventi degli ultimi mesi, ma che ovviamente li ingloba. One night in Miami è disponibile su Prime Video dal 15 gennaio 2021.
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