Nonostante la rappresentazione delle relazioni omosessuali lesbiche nei film siano aumentate vengono proposti ancora dei modelli negativi che perpetuano stereotipi negativi sulla comunità LGBTQI+.
Perché è così raro un lieto fine per le coppie lesbiche nei film? Nel dibattito culturale all’estero, molto più che in Italia, è consolidata l’idea secondo cui i film che hanno per protagonisti personaggi appartenenti alla comunità LGBTQI+ terminino sempre in maniera tragica, al punto tale da diffondere liste specifiche di film con un finale positivo in articoli appositamente dedicati.
Un motivo per cui nelle storie omosessuali e transgender ci sono finali tristi o drammatici è dovuta agli stereotipi legati alle persone che fanno parte della comunità. Stereotipi che sono portati avanti da una società che non stigmatizza e condanna l’omofobia.
Lo stigma
La discriminazione sistematica delle persone omosessuali è derivata da ideologie sia laiche che religiose, come ad esempio le condanne esplicite o il mancato riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali, sia sul piano morale che legale, per molto tempo.
Questo tipo di retorica ha avuto delle ripercussioni su alcune produzioni cinematografiche a tema queer. La questione religiosa è centrale nel film del 2018 To Each, Her Own (Les Goûts et les Couleurs): Simone è fidanzata con Claire da molti anni, ma non ha fatto coming out con la sua famiglia ebrea tradizionalista. Simone però si innamora di Wali, il cuoco del bistrot dove va abitualmente in pausa pranzo con la sua collega Geraldine. La conclusione è sicuramente innovativa e in linea con i tempi, lasciando lo spazio a una sorta di coppia poliamorosa, ma la questione religiosa è cruciale per le vite di molte persone non eteronormate e, nonostante fosse il nodo centrale da risolvere viene completamente ignorata. In questo senso dunque è davvero una occasione persa.
Il tornaconto economico
Il fattore economico ha un certo rilievo: l’obiettivo principale delle case di produzione cinematografiche è il profitto. Un film che mostra una storia d’amore omosessuale interamente positiva verrebbe considerato un rischio di inimicarsi un pubblico eterosessuale, composto da spettatori cresciuti in società orientate da un pregiudizio negativo nei confronti dell’omosessualità.
Di quanto l’aspetto economico nell’industria cinematografica sia influente è evidente nel passaggio dalla versione fumettistica a quella filmica di La vita di Adele. Il film è tratto dalla graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh. Le differenze tra la versione filmica e quella fumettistica, che riguardano l’attrazione verso gli uomini, ci dimostrano che in un ambito molto più di nicchia, e con meno pressioni dal punto di vista del pubblico, c’è una rappresentazione molto naturale e umana dei sentimenti e dell’orientamento sessuale delle due protagoniste. Nel film il primo approccio con il ragazzo apre alla possibilità del tradimento con un uomo che poi, sistematicamente, si ripresenta.
La visibilità
Le maggiori produzioni a tema LGBT+ vede nei ruoli principali, quelli di attore/trice protagonista e registi/e, delle persone eterosessuali. Questo aspetto è da considerarsi problematico per via del dominio di influenze eterosessuali, che ha condizionato inevitabilmente il modo in cui le storie sono state raccontate. Molti di coloro che realizzano film che rappresentano la comunità LGBTQ+ ne fanno parte, come Lisa Chodolenko, la regista di I ragazzi stanno bene (2010).
L’aspetto che colpisce di questo film è che nonostante la regista sia parte della comunità lesbica, e abbia basato la trama sulla sua esperienza personale. Quest’ultima è stata adattata alla logica stereotipica del tradimento con un uomo ed è totalmente estranea al suo vissuto.
Il supporto degli alleati
In altri casi c’è comunque vicinanza e supporto verso le persone omosessuali, come nel caso di Maria Sole Tognazzi, regista di Io e lei (2015). Come fa intendere in una intervista su Repubblica quando parla di un “noioso e spesso pericoloso atteggiamento omofobo di una parte dell’Italia”. Nel film le protagoniste, Federica e Marina, sono due donne adulte che hanno una relazione e convivono da cinque anni. Federica tradisce Marina con Marco e dopo una crisi e successiva separazione le due si riappacificano. Viene rappresentata questa figura maschile al solo fine di creare un elemento di disturbo tra le due: non viene né contestualizzata né in qualche modo viene giustificata la relazione poi intessuta.
Un solo caso fuori dal coro
Merita una menzione a parte Habitacion en Roma (2010) perché costituisce una vistosa eccezione rispetto all’andamento che finora abbiamo delineato. Scritto e diretto da Julio Medem, questo è l’unico caso, tra quelli presi in esame, in cui una donna in una coppia omosessuale tradisce la propria partner con un’altra donna. Questo risvolto è coerente con le caratteristiche delle due protagoniste: Natasha che ha la sua prima esperienza omosessuale come sperimentazione; Alba, moglie e madre in una famiglia omogenitoriale, che in un momento di crisi familiare forte (la tragica morte di un figlio) trova rifugio in un tradimento effimero di una notte.
Questo tipo di narrazione alimenta una serie di stereotipi cis-etero normativi, per cui una coppia lesbica non è autosufficiente sessualmente senza un uomo, per cui in qualche modo ha una mancanza costitutiva che va colmata tramite una presenza maschile. Tale immaginario svilisce le donne lesbiche e le riconduce al pregiudizio per cui l’attrazione e l’amore verso una donna durano fino al primo “uomo giusto” al momento giusto che capita sotto al naso.
È importante fornire una rappresentazione positiva delle relazioni all’interno della comunità LGBTQ+ perché continuare a focalizzarsi e a rappresentare solamente gli aspetti negativi rafforza l’idea che le relazioni in questione siano in qualche modo inferiori rispetto alle altre. È una visione che noi tutti e la società intera dobbiamo cambiare. Iniziare attraverso la rappresentazione (cinematografica in questo caso) è il primo passo.